Nella Striscia la situazione è post-apocalittica. Ma Tel Aviv non rinnova il visto al capo dell’Ufficio Onu per gli affari umanitari nei territori occupati. E ostacola sempre più gli aiuti

Gerusalemme Est, primo agosto. Alle 12 in punto, ora locale, Andrea De Domenico apre il collegamento per il suo ultimo briefing con la  stampa dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari nei territori palestinesi occupati, che ha diretto per 5 anni e mezzo. Poco meno di 39 minuti in cui De Domenico, con voce ferma, fa il punto sul suo mandato e aggiorna sulla situazione umanitaria. Un giro di risposte alle domande dei giornalisti e, prima di chiudere, un appello: «Bisogna porre un limite alla disumanità». Il capo dell’ufficio che coordina le attività umanitarie dell’Onu in Cisgiordania e a Gaza è stato costretto a lasciare Israele per il mancato rinnovo del visto. «Vado via mio malgrado, ma le Nazioni Unite non abbandoneranno le operazioni nella Striscia», afferma risoluto, anche se, come lui stesso ha evidenziato durante la conferenza di congedo con i media, «un gran numero di dipendenti delle organizzazioni internazionali non può attualmente completare il rinnovo del proprio visto e molti di loro sono coinvolti nella fornitura di aiuti a Gaza».

 

La situazione sul terreno è al limite della catastrofe irreversibile, nonostante gli sforzi per un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi che vedono impegnato in prima linea il segretario di Stato Usa, Antony Blinken. In visita a Gerusalemme per un colloquio con il premier Benjamin Netanyahu, annuncia che «Israele ha messo in campo i suoi principali negoziatori al summit al Cairo per proseguire i negoziati di pace». Ma Hamas frena, sostenendo che gli israeliani abbiano cambiato le condizioni per l’accordo. Una tregua, dunque, sembra ancora lontana, mentre crescono le tensioni con Libano e Iran. Intanto il numero delle vittime – oltre 40 mila morti – e degli sfollati continua a crescere. La maggior parte dei sopravvissuti non può contare su assistenza umanitaria. «Come Onu, non siamo in grado di garantire aiuti nei modi e nelle quantità che richiede questa crisi tanto grave. Abbiamo grandi difficoltà a soddisfare le richieste di beni primari: acqua, cibo e medicine. Poi ci sono altri beni che consideriamo ugualmente importanti, come i materassi e le coperte. La gente ha perso tutto sotto i bombardamenti. E la situazione non può che peggiorare», conclude De Domenico.

 

A rafforzare le sue preoccupazioni, il direttore dell’Unrwa (Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, definita «organizzazione terroristica» da Israele), Philippe Lazzarini. Evidenzia che «l’84% della Striscia di Gaza è stato posto sotto ordine di evacuazione dall’esercito israeliano». Lazzarini, di origini svizzere, è andato sul posto l’ultima volta lo scorso gennaio: da allora non gli è più stata concessa l’autorizzazione per tornarci. Tuttavia, sulla base di quanto riportano le squadre operative sul terreno, riferisce che «la situazione a Gaza è post-apocalittica, con una popolazione costretta costantemente a fuggire perdendo tutto cammin facendo: famiglia, beni personali, rifugio». Lungo la Striscia, circa 305 chilometri quadrati, le persone corrono per salvarsi la vita, afferrando ciò che possono e lasciandosi alle spalle il resto. Sono esauste e non hanno un posto sicuro dove andare. Ma anche i luoghi ritenuti tali possono trasformarsi in obiettivi militari. Fatali. Come la scuola Al-Tabai’een a Gaza City, colpita il 10 agosto scorso dalle Israel Defence Forces con tre raid aerei che hanno provocato almeno 93 morti. Per Israele erano terroristi e la struttura era una base di Hamas. Ma ciò che hanno trovato i soccorritori, che non hanno potuto far nulla per salvare «persone in fiamme», ha rivelato altro. Fonti mediche dell’Ospedale Al-Ahli, dove sono stati portati una settantina di corpi, parlano di «massacro atroce». Quel poco che è rimasto delle vittime, tra cui donne e bambini, testimonia che la scuola ospitava famiglie sfollate.

 

 

«Più della metà delle scuole utilizzate come rifugio sono state colpite deliberatamente dall’esercito israeliano», riferisce il portavoce dell’Unicef per il Medio Oriente, Salim Oweis. L’Agenzia per l’infanzia delle Nazioni Unite ha anche denunciato i tentativi di ostacolare le operazioni di soccorso, impedendo l’ingresso di convogli umanitari nella parte settentrionale della Striscia, apparentemente senza validi motivi. «L’impatto del mancato arrivo degli aiuti a causa delle restrizioni di accesso imposte dall’Idf sta perpetuando un ciclo di privazione e angoscia tra le persone sfollate», afferma l’Onu, evidenziando che «dal primo di agosto a circa un terzo delle missioni di aiuto all’interno di Gaza è stato negato l’accesso dalle autorità israeliane». E che «i bombardamenti israeliani dal cielo, dalla terra e dal mare continuano a essere segnalati in gran parte della Striscia, con ulteriori vittime, sfollamenti, distruzione di case e altre infrastrutture civili».

 

In soli tre giorni, almeno 200 palestinesi sono stati uccisi e 440 feriti, esclusi quelli che risultano dispersi e i cui corpi devono ancora essere recuperati dopo gli attacchi ad Al-Qarara, Khan Younis; al Samar Junction, nel centro di Gaza; a Khadija e nel campo profughi di Nuseirat occidentale, a Deir al-Balah; e infine a Jabalya. Pur non avendo la possibilità di accertare sul terreno i dati forniti dal ministero della Salute palestinese – al 20 agosto, dal 7 ottobre 2023, 40.139 vittime e 92.743 feriti – l’Onu ritiene che le cifre siano verosimili. E anche sulla scuola Al-Tabai’een è apparsa critica nei confronti di Israele, sostenendo che «al momento dell’attacco le persone rifugiate nella struttura, dichiarata “sicura”, stavano eseguendo la preghiera del mattino, all’alba, nella sala della scuola adibita al culto».

 

I dati che arrivano da più fonti rilevano che le vittime principali del conflitto sono i bambini, come ha dichiarato l’addetto alle comunicazioni dell’Unicef. «La guerra a Gaza continua a infliggere orrori a migliaia di minori, lasciandone troppi separati dai loro cari», dice Jessica Dixon che per l’Unicef coordina le operazioni a Gaza e in Cisgiordania, annunciando che sette bambini sono stati riuniti alle loro famiglie, tra cui un neonato evacuato per ricevere cure mediche all’Ospedale Al Aqsa di Deir al-Balah: dopo otto mesi è tornato tra le braccia dei genitori. Altri tre bambini sono stati riconsegnati al padre, a Gaza Nord, dopo che la madre e un altro figlio erano stati uccisi a Sud della Striscia. Questo programma di ricongiungimento è una delle poche “luci” in una guerra che non risparmia nessuno. In corso da marzo, il rintracciamento dei parenti di bambini non accompagnati (orfani, smarriti o separati dai familiari per motivi di salute) ha permesso a centinaia di famiglie, o a ciò che ne è rimasto, di ritrovarsi. Per l’Unicef, il numero reale dei minori separati dai nuclei familiari a Gaza è «sconosciuto» in quanto «è quasi impossibile raccogliere e verificare le informazioni con le attuali condizioni di sicurezza e umanitarie». Tuttavia, sulla base di un’analisi delle tendenze globali dei conflitti, l’Agenzia per l’infanzia stima che siano almeno 17 mila. Sul numero delle vittime – oltre 16.400, secondo l’ufficio stampa governativo palestinese – fonti Onu interpellate da L’Espresso evidenziano che il dato sia «molto vicino alla realtà». Anche se la cifra nei report dell’Ufficio che coordina gli aiuti umanitari è diversa, resta tragicamente alta.