«Sono un alleato delle donne, se non proprio un femminista». L'attore, impegnato a indagare le diverse sfumature del potere attraverso i suoi personaggi, si racconta: «Condividere storie è l’essenza dell’essere umano»

Non si può conoscere veramente la natura di un uomo finché non lo si vede amministrare il potere. Lo sosteneva Sofocle, lo ribadisce oggi Jude Law, che da qualche anno a questa parte è intento a indagare le diverse sfumature del potere attraverso i suoi personaggi. Che interpreti un mago supremo, il Papa, Capitan Uncino o un re, tanto per restare nei suoi ruoli più recenti, sceglie puntualmente storie in cui confrontarsi appunto con il potere, tendenzialmente sempre nelle mani dei suoi personaggi, «anche se ognuno di loro lo gestisce in maniera diversa», sottolinea l’attore. Ha ragione: se Albus Silente di “Animali Fantastici” lo faceva attraverso la sua bacchetta di sambuco, Lenny Belardo di “The Young Pope” e “The New Pope” tramite il carisma, Uncino ingaggiando la battaglia secolare con Pan nell’ultimo remake della fiaba (disponibile su Disney +), il suo Enrico VIII del nuovo “Firebrand” (presentato al Festival di Cannes e a ottobre nelle sale italiane) lo fa viaggiando su un binario parallelo di paranoia e ossessione.

 

«Per interpretare Enrico VIII mi sono concentrato soprattutto sulle sue fragilità fisiche e su come le affrontasse negli ultimi giorni della sua vita. Era un uomo malato, con una serie di ferite impossibili da curare in un tempo in cui non esistevano antisettici, dolorosissime data l’assenza di anestetici. Ho voluto raccontare questo suo misto di dolore e forza che lo portava a cambi repentini di umore, alla dipendenza dall’alcol e a tutte le malefatte che conosciamo». Per raccontarlo è partito da una domanda cruciale: «Mi sono chiesto chi fosse davvero quell’uomo, oltre la sua corona». Non si è dato risposte rassicuranti: «Era praticamente un mostro, come altro si può definire uno che ha ucciso le mogli e condannato a morte una serie di altre persone durante il suo regno?». Il potere, del resto, gioca brutti scherzi: «A Enrico VIII era stato messo addosso, su quelle spalle troppo giovani, un potere troppo grande da gestire. Pensiamo a un ragazzino che viene di colpo separato dalla sua famiglia, addestrato severamente per diventare sovrano e convincersi di essere secondo soltanto a Dio e che la sua volontà ne fosse in qualche modo un’emanazione. È una roba da matti, nel senso letterale del termine, fa impazzire, mi sono domandato a fondo cosa potesse provocare tutto questo nella testa di un uomo. Non m’interessava restituire il ritratto cartaceo di un personaggio shakespeariano, ma rendere l’idea di un uomo reale, in carne e ossa».

 

Una scena del film "The order"

 

Dal lavoro psicologico a quello fisico il passo è stato breve: «Il bello di quando racconti un personaggio storico è che, al netto dei fatti narrati, hai ampio spazio per indagare la sua storia personale e il suo privato, muovendoti in sterminati spazi di libertà e immaginazione per mostrare come vivessero davvero quelle persone. Avevo addosso strati e strati di vestiti – ogni strato rappresentava il lusso e il potere da sfoggiare – e ciascun capo era stato minuziosamente reperito per restituire la maggiore autenticità possibile. Per lo stesso scopo ho ripensato ai resoconti secondo cui pare che si percepisse l’odore sgradevole di Enrico VIII a tre stanze di distanza, tanto era terribile, per la serie di ulcere marcescenti sulla sua gamba». Così è ricorso a un bizzarro stratagemma: «Ho pensato che avrebbe avuto un impatto maggiore se avessi davvero emanato un odore terribile sul set e ho coinvolto uno specialista di profumi mio amico per ricreare una curiosa miscela che sapesse insieme di sangue, feci e sudore. Era utile per ricreare sul set l’atmosfera e restituire l’orrore di quanti dovevano venerare il re e soddisfarne i desideri trattenendo intanto i conati di vomito».

 

Una potente metafora del potere, specie per chi come lui è del tutto allergico alla fascinazione per i monarchi, pur essendo britannico: «La corona inglese per me è come il teatro. Sarà che non amo affatto i pettegolezzi, non mi interessano e anzi detesto chi spettegola sulle vite altrui, anche quelle dei reali». Sceglie i progetti da interpretare sempre in base alla storia e alla regia, se c’è un film da ripescare per comprendere quello che definisce «il viaggio di un attore da com’era a quello che poi è diventato» suggerisce “Il talento di Mr. Ripley”. «Avevo vent’anni e ho avuto la fortuna di interpretare un film con una sceneggiatura e una regia straordinarie». Il bello del suo mestiere? «Invecchiando noi attori abbiamo il privilegio di andare sempre più a fondo, di vivere il passare del tempo insieme ai nostri personaggi. Ci capita di interpretare uomini differenti, di diverse età, culture, provenienze. Persone che magari hanno vissuto più esperienze di noi e da cui c’è sempre da imparare». O disimparare, come nel caso del controverso Papa iconoclasta Lenny Belardo delle serie “The Young Pope” e “The New Pope” di Paolo Sorrentino: «Nell’approcciarlo ho approfondito la storia del Vaticano, volevo capire e studiare anche gli effetti che i pontefici nella storia hanno avuto sui fedeli e sulle loro vite. Mi sono reso conto dell’enorme impegno che richiedeva affrontare tutto questo, la verità è che ero nel panico. Non ero sicuro che sarei stato in grado di interpretare quel personaggio così sopra le righe, che induce tutti a chiedersi cosa gli passasse per la testa. Mi sono affidato interamente a Paolo, un regista con una visione potente, eppure sulle prime molto timido.  Alla fine credo che insieme siamo riusciti a costruire l’immagine di un uomo credibile che arrivava al papato, mostrando anche come il suo passato di orfano lo avesse profondamente condizionato». Un’esperienza che lo ha fatto riflettere anche sulla fede: «Ho analizzato a fondo il mio rapporto con la religione, interrogandomi sul senso della fede e sulle contraddizioni del potere della Chiesa che abbiamo cercato di rappresentare». In ben due stagioni: «A Venezia per l’anteprima di “The Young Pope” Sorrentino mi aveva confidato un paio di idee su uno sviluppo della storia del mio Belardo, ma allora mi pareva impossibile aggiungere qualcos’altro a quel personaggio. Quando ho letto il copione della nuova stagione, invece, ho realizzato che Paolo aveva avuto un’altra idea brillante: raccontare la complessità di un uomo che realizza di non essere l’unico Papa». Potere spirituale e potere temporale, Law ha avuto modo di interpretare entrambi e mostrarne tutto il lato oscuro: «Le ombre arricchiscono un personaggio e ne rendono più stimolante l’interpretazione».

 

Jude Law con Gwyneth Paltrow nel film "Il talento di Mr. Ripley"

 

Non giudica mai chi sceglie di interpretare: «L’esercizio di comprensione è alla base di ogni sfida attoriale: impari a conoscere il diverso da te, a comprendere le sue azioni, per eccessive che siano. Ad amarlo, addirittura. Di base chi fa il mio mestiere non può non restare affascinato dall’animo umano». Anche quando è particolarmente turpe: «Per tornare a Enrico VIII, il suo terribile atteggiamento violento con le donne non può non restare impresso, eppure è tristemente molto attuale».

 

Ma lui se ne discosta totalmente: «Sono cresciuto con due donne forti, mia madre e mia sorella mi hanno fatto da guida nella vita». Oggi si definisce «un alleato delle donne, se non proprio un femminista» e si dice «contento del fatto che oggi sempre più donne abbiano modo di esprimere il loro talento e la loro arte nel cinema. È importante che le loro storie vengano raccontate, che siano presenti davanti e dietro la macchina da presa, per questo ho accettato ben volentieri di raccontare un Enrico VIII così brutale e feroce contro una donna straordinaria la cui storia non era mai stata raccontata. Quella della sua consorte Catherine Parr (interpretata da Alicia Vikander, ndr)». Perché, conclude l’attore che vedremo alla Mostra del Cinema di Venezia nel film “The Order”, se c’è qualcosa in cui davvero crede con tutto se stesso è il potere, stavolta del cinema, di cambiare la prospettiva delle persone: «Credo nella capacità trasformativa delle storie che vediamo, nel potere della condivisione, del trovarsi tutti di fronte alla stessa narrazione e dello scambiarsi opinioni ed esperienze al riguardo. È qualcosa che ci unisce e ci appartiene profondamente come esseri umani, perché lo facciamo dall’alba dei tempi: dopo esserci sfamati e scaldati, abbiamo subito iniziato a condividere storie e, per fortuna, non abbiamo ancora smesso».