Enfant prodige della Dc salentina, cacicco berlusconiano, regista della metamorfosi di Meloni in conservatrice europea. Le tante vite del ministro del Pnrr designato dalla premier per la poltrona italiana in Europa

La domanda, adesso che è stato ufficialmente designato commissario europeo per l’Italia e in attesa che il percorso si compia, è come farà il governo di Giorgia Meloni senza Raffaele Fitto. Tra i pochissimi della tribù di Fratelli d’Italia ad avere un tocco diverso: non proveniente dalla destra missino-aennina (come lui solo Guido Crosetto), di sangue democristiano e storia forzista, ben inserito nei poteri forti, dialogante, non lagnante, non soccombente, Fitto scarseggia certamente nell’inglese (sta studiando) ma eccelle nell’elasticità gommosa con la quale fa roteare i suoi avvolgenti giri di parole e nella rapidità con la quale ricolloca le proprie ambizioni, strategie, prospettive.

 

È questa del resto la chiave del suo operato come mister Pnrr: rimodulare, superare, condividere. Modificare, stemperare. La sua specialità. La chiave del suo lattiginoso successo. Bravissimo a rinegoziare il Pnrr e insieme a farne perdere le tracce: ad esempio l’Italia, il dato è di luglio, ha speso finora circa il 25 per cento del valore del Piano, 49,5 miliardi, solo 4 in più rispetto a dicembre: dovrà spendere gli altri entro i prossimi due anni, ma non si hanno ulteriori dettagli perché, dopo le modifiche chieste e ottenute da Fitto per conto del governo, non si ha più un cronoprogramma delle spese.

 

Se Raffaele Fitto ha fatto il ministro di Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni è perché ha saputo cambiare i suoi progetti: una volta puntava a diventare il delfino di Silvio Berlusconi, il Cavaliere lo chiamava «un po’ una mia protesi»; se ora farà il commissario europeo è perché tra il 2014 e il 2018 è stato capace di una spettacolare ricollocazione, che l’ha portato a fare il regista dell’assetto europeo di Fratelli d’Italia nei Conservatori, né col Ppe né con Le Pen, una intuizione che è stata all’epoca essenziale su quello scacchiere. Una virtù democristiana: l’elasticità. È quella che l’ha salvato già una volta dalla sua prematura fine politica.

 

Salentino, 55 anni, figlio di notabile democristiano nativo di Maglie - il paese di origine di Aldo Moro - scomparso in un tragico incidente stradale mentre era presidente della regione, consigliere regionale in Puglia con la Dc a 20 anni, assessore a 24, eletto parlamentare europeo con Forza Italia nel 1999 a trent’anni neppure compiuti, a 31 presidente della Puglia e a 39 ministro degli Affari regionali, con Giorgia Meloni ministra della Gioventù nello stesso governo Berlusconi.

 

Nel 2013 è lui a riempire la piazza della Libertà di Bari dove il Cavaliere tiene il comizio per bloccare la strada del Quirinale a Romano Prodi. Sul lungomare, per più di un’ora, i pullman scaricano le truppe di Fitto: giovani, anziani e famiglie che vengono da Mesagne, Maglie, Gallipoli, Lecce. Ma, per diventare il prediletto di Silvio non basta lo sforzo. E non bastano, alle elezioni europee del 2014, i 275.299 voti di preferenza da record. Il delfino di Berlusconi nel 2013 è ancora Angelino Alfano, un altro puledro democristiano. E quando Alfano esce da Forza Italia, Fitto prova a prendere il suo posto con la corrente dei Ricostruttori, ma si ritrova ancora la strada sbarrata, questa volta da Denis Verdini. Critica il patto del Nazareno e accusa il Cavaliere di essere «ipnotizzato» da Renzi. Vota in dissenso da Forza Italia su Sergio Mattarella al Quirinale. Cerca, invano, di fare un tandem con Mara Carfagna in concorrenza con Verdini e con i lealisti di Giovanni Toti.

 

Lo strappo avviene nel maggio 2015 sulla candidatura per la presidenza della regione Puglia di Adriana Poli Bortone, oggi tornata sindaca di Lecce, con il sostegno di Forza Italia e Lega. Fratelli d’Italia sostiene invece l’altro candidato del centrodestra, Francesco Schittulli, insieme a Fitto. L’ex enfant prodige berlusconiano lascia Forza Italia: «Non c’è più» dice. «Abbiamo bisogno di andare oltre per un centrodestra moderno.» La reazione di Berlusconi è gelida: «In passato qualcuno se n’è andato da Forza Italia e non è mai finito molto bene. Chi se ne va ci toglie un peso, siamo felici». A 45 anni quella di Fitto sembra una carriera già al tramonto. E invece anche per lui c’è una second life. Come per Giorgia. Cambiare strada si rivela fondamentale.

 

Nel 2015 l’ex ministro lascia in Europa il gruppo del Ppe ed entra nel gruppo Conservatori e Riformisti, di cui diventa vicepresidente. È lui, alla vigilia delle europee del 2019, a guidare l’operazione europea di Giorgia Meloni, che per Fitto significa anche portare il suo partitino in un progetto più grande. Il 6 novembre 2018 Fratelli d’Italia entra nel gruppo dei Conservatori, che sono guidati dai polacchi del Pis, Diritto e Giustizia, da Jarosław Kaczynski, conservatore e tradizionalista, clerico-nazionalista ma anche anti-Putin e filo-nato. Per Fratelli d’Italia completare l’operazione di cui Fitto è regista significa evitare l’isolamento europeo ed entrare in un network di relazioni e di finanziatori importanti. Con l’obiettivo di far parte del gruppo che farà da anello di congiunzione tra popolari e populisti. «Vogliamo costruire un rapporto privilegiato con gli amici del gruppo di Visegrad che sono un modello di come si sta in Europa a testa alta» annuncia Meloni. Il partito erede di Mussolini entra in Europa nel partito erede di Churchill, trascinato dal figlio di un amico di corrente di Aldo Moro. Per stare con Visegrad e non con Bruxelles. Con un grado di ambivalenza che si è portato dietro fino ad oggi, una cortina fumogena è che è crollata solo nel mancato voto ad Ursula von Der Leyen da parte dei Fratelli di Giorgia.

 

Chiaramente per lui adesso si apre una nuova fase, ma appunto il problema è soprattutto di Giorgia Meloni. «Una scelta dolorosa, ma necessaria», ha detto lei nell’annunciare la designazione. Perde un partner quasi perfetto per la capacità di gestire l’ingestibile, di continuare a farlo girare su se stesso come il piattino di un giocoliere, anche senza minimamente risolverlo. Come ha fatto con il Pnrr, facendo leva su quel gigantesco cuscino di comodo che è la capacità dell’Italia di accumulare ritardi e di non fare quel che dovrebbe, per poi magari trovare una mezza soluzione all’ultimo momento, che a quel punto apparirà strepitosa. Per Fitto, andare a Bruxelles lo è sicuramente: la sua third life, anche senza Giorgia.