Nel paese che dà il titolo al film premiato a Venezia, si intrecciano la fine della guerra e la crisi di una famiglia. In un affresco fatto di dettagli geniali

Una vasta famiglia di contadini in un paesino sulle Alpi, fra il Trentino e la Lombardia. Il 1944/1945 con il suo carico di angosce e di speranze. Una guerra che non vediamo mai se non attraverso due soldati, anzi due disertori riparati lassù, a Vermiglio, perché uno è il cugino delle tre protagoniste, l’altro un siciliano a cui il primo deve la vita e che avrà un ruolo capitale nella vicenda. Ma non anticipiamo altro di questo film corale e assai bello che aggiorna la lezione di Olmi con fermezza insolita in un’opera seconda.

 

Ne “L’albero degli zoccoli” era infatti l’Ottocento a finire. Qui è la Seconda guerra mondiale e con essa un’epoca, anche se naturalmente a Vermiglio tutto sembra immutabile. C’è un padre pacato ma molto padrone (Tommaso Ragno al suo meglio) che fa anche il maestro e crede di sapere tutto, della famiglia e del paese. C’è una madre che continua a sfornare figli (Roberta Rovelli) anche se la primogenita è ormai adulta. E poi bambini che nascono, altri che muoiono, tre fratellini che con le loro domande insieme ingenue e sapienti sono un po’ il “coro” del film. 

 

Anche se al centro, volendo trovare un centro, spiccano le tre sorelle. Lucia (Martina Scrinzi), la primogenita; Ada (Rachele Potrich), quella che per inappellabile decreto paterno non potrà proseguire gli studi, anche se è forse la più intelligente (e la più sensuale, pronta a infliggersi le peggiori penitenze per espiare le proprie fantasie). Infine la piccola Flavia (Anna Thaler), la prediletta, che come tutti i bambini non smette un momento di fare e farsi domande, di fantasticare, insomma di crescere.

 

Come tutto questo film complesso, stratificato, molto emozionante, anche se (o proprio perché) scritto e girato ignorando allegramente le regole più consolidate del cineracconto. Per restituire peso e presenza a tutto ciò che palpita sullo schermo, gli umani, gli animali, gli oggetti in mezzo a cui vivono. Lasciando allo spettatore il compito di capire cosa accade davvero in una scena, o anche tra una scena e l’altra. Fino a saldare in un unico movimento due epoche, quella in cui si svolge il film e quella in cui è stato fatto. Rendendo incredibilmente vivo e contemporaneo questo passato remoto ma non così passato. Stili di vita, relazioni, aspettative, gerarchie, mentalità: tutto, in questa microepopea radicata nel retroterra famigliare della regista, è palpabile e presente. E niente e nessuno viene mai giudicato. 

 

Dopo “Maternal”, ambientato in un rifugio per ragazze madri a Buenos Aires, una potente conferma per Maura Delpero. E un meritatissimo Gran premio della giuria a Venezia.

 

VERMIGLIO
di Maura Delpero
Italia, Francia, Belgio, 119’