Le navi che soccorrono in mare i migranti costrette ad attraccare a centinaia di chilometri. “Violano il diritto internazionale e rendono inefficace il nostro impegno”

Le ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo, a Nord della Libia, sono costrette a far sbarcare le persone salvate dai naufragi a centinaia di chilometri di distanza, anziché portarle al sicuro nel porto più vicino. Questo succede dal gennaio 2023, a causa della prassi delle autorità italiane di assegnare porti lontani per l’attracco alle navi di salvataggio.

 

Quest’estate, una delle navi dell’ong tedesca Sea-Watch ha soccorso 156 persone, tra cui due donne incinte, e ha dovuto navigare tre giorni per farle sbarcare alla Spezia. La Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha ricevuto l’ordine di spingersi fino a Ravenna per mettere al sicuro 73 migranti, impiegando cinque giorni tra scabbia e gravi condizioni psicologiche delle persone a bordo. Uno dei minori trasportati, una volta sbarcato, è stato subito portato in ospedale per i traumi subiti. L’Ocean Viking di Sos Méditerranée, poi, ha viaggiato quattro giorni per raggiungere il porto di Ancona con a bordo 196 naufraghi. «Di porti più vicini ovviamente ce ne sono molti altri e i migranti potrebbero essere distribuiti via terra verso altre destinazioni», dice uno dei capi missione.

 

Questi sono solo alcuni degli episodi che nelle ultime settimane hanno costretto i naufraghi a viaggiare ancora e rallentato le operazioni via mare di ricerca e soccorso delle ong. L’organizzazione tedesca Sos Humanity ha calcolato che nel 2023 le navi hanno dovuto percorrere oltre 150.500 chilometri in più per raggiungere porti lontani, tre volte e mezzo il giro del mondo. Si tratta in totale di 374 giorni in cui le ong non sono state in grado di effettuare salvataggi. Intanto, la Guardia costiera italiana, che si occupa di circa il 90 per cento dei soccorsi in mare, continua ad attraccare regolarmente nei porti più vicini della Sicilia.

 

«Il governo italiano sta violando il diritto dell’Unione europea e quello internazionale assegnando sistematicamente porti lontani alle persone salvate in mare. Ciò è assolutamente inaccettabile considerato il gran numero di persone in difficoltà sulla rotta migratoria più mortale del mondo», attacca Mirka Schäfer, portavoce di Sos Humanity. Da inizio anno, riporta l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni, sono circa 1.020 le persone morte o scomparse nel Mediterraneo centrale. Ma quando alcune ong hanno provato a chiedere spiegazioni sulla prassi dei porti lontani, il ministero dell’Interno ha risposto che le informazioni non sono accessibili per motivi «legati alla salvaguardia delle relazioni nazionali e internazionali e alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica».

 

Dagli accordi stretti con la Libia nel 2017, i tentativi del governo italiano di ostacolare i salvataggi delle ong adottando una logica securitaria si sono susseguiti ogni anno, osserva Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch: «La legge Piantedosi è un altro escamotage per ostacolare la società civile, perché assegna subito il porto sicuro, ma in porti irragionevolmente lontani». Il decreto legge, entrato in vigore il 2 gennaio 2023, impone alle navi civili di far sbarcare i naufraghi in porti distanti fino a 1.600 chilometri e a cinque giorni di navigazione dal luogo del soccorso.

 

A comunicare ufficialmente il porto di destinazione alle ong è la Guardia costiera, ma a stabilire l’ordine è il ministero dell’Interno. «I casi di ricerca e soccorso in mare vengono trattati sempre più spesso come operazioni di polizia, così come è successo a Cutro, dove di conseguenza è mancato l’intervento repentino di salvataggio da parte della Guardia costiera – aggiunge Linardi – l’obiettivo della politica è rendere il Mediterraneo lo scenario dove applicare al massimo le politiche di esternalizzazione, ovvero di delega delle responsabilità sulla migrazione agli Stati del Nord Africa, sotto i finanziamenti dell’Unione europea». Il problema è che a occuparsi di questa attività via mare sono anche le Guardie costiere di Libia e Tunisia, più volte accusate di condurre respingimenti illegali e di essere responsabili di gravi violenze nei confronti delle persone migranti. La stessa Libia non è considerata dalla comunità internazionale un Paese sicuro per i rimpatri.

 

Se le navi che conducono i salvataggi civili si rifiutano di raggiungere il porto di destinazione indicato, incorrono in sanzioni e fermi amministrativi. Come successo all’imbarcazione Aurora di Sea-Watch, trattenuta perché l’equipaggio è stato accusato di aver violato il decreto Piantedosi attraccando a Lampedusa, anziché nel porto assegnato, pur non avendo abbastanza carburante per raggiungerlo. «Questo episodio rivela la natura di deterrenza della legge», dice Lucia Gennari, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

 

Assieme alle ong Sos Humanity, Mission Lifeline e Sea-Eye, Gennari e altre colleghe hanno fatto ricorso al tribunale civile di Roma contro l’illegittimità dell’assegnazione dei porti lontani sostenendo che «comporta il rischio per le persone a bordo di essere esposte a ulteriori problemi di salute, mentale e fisica, contravvenendo inoltre al diritto marittimo internazionale». Questo stabilisce che un luogo sicuro dovrebbe essere assegnato «con una deviazione minima dal viaggio della nave» e che i centri di coordinamento del soccorso «devono organizzare tale sbarco da effettuare il prima possibile». Tuttavia i porti assegnati più di frequente nell’ultimo anno e mezzo sono Ancona, Brindisi, Bari, Civitavecchia, Genova e Ravenna, da 600 a oltre 1.000 chilometri più lontani rispetto a un porto vicino in Sicilia.