La storia della bambina lasciata morire dalla madre non si limita al fatto di sangue. Ma si intreccia con questioni sociali, politiche e urbanistiche. Un libro le indaga

Il 29 gennaio prossimo inizierà il processo d’appello delcaso Pifferi. Lo ricorderete, forse: i giornali e le tv ne hanno parlato parecchio. Alessia Pifferi è la donna che il 14 luglio 2022 abbandonò in casa da sola per sei giorni sua figlia di un anno e mezzo, Diana, fino a farla morire per disidratazione. Fu la madre stessa a ritrovarla cadavere e a lanciare l’allarme, appena tornata nella sua casa di Ponte Lambro - estrema periferia milanese - dalla provincia di Bergamo, dove era stata in quella settimana con il suo compagno. In primo grado l’imputata è stata condannata all’ergastolo; sua madre e sua sorella hanno detto che è stato giusto così.

 

Fin qui i fatti, crudi. Dietro quella che sembra solo una vicenda di cronaca nera si nasconde tuttavia un universo di domande. Ad esempio: Pifferi è stata sottoposta a infiniti test e a due perizie psichiatriche; ne è uscita come una persona con molti deficit cognitivi fin dall’infanzia e alcune sue risposte sono quasi comiche per manifesta stoltaggine. Eppure non è risultata così stupida da non capire che se si lascia senza acqua né cibo una bimba di un anno e mezzo questa probabilmente muore. Quindi è stata giudicata capace di intendere e volere - e di qui il carcere a vita, quello che si dà agli stragisti o nei casi peggiori di femminicidio premeditato.

 

A proposito: a Pifferi invece non è stata data la premeditazione, ma “solo” l’omicidio volontario. Non sarebbe cioè partita da Ponte Lambro con l’intento di far morire sua figlia: la volontà omicida sarebbe emersa durante i giorni in cui l’aveva abbandonata. Quando? Con precisione non si sa; nemmeno gli psichiatri sono riusciti a identificare il momento in cui sarebbe scattato il dolo. Per semplicità, la giuria ha deciso che è stato il 17 luglio, il giorno in cui ha prenotato un Ncc per tornare a Milano il 20. Una data scelta a tavolino per l’impossibilità di capire davvero cos’è successo nella mente della donna in quella settimana. È curioso come la legge chieda alla psichiatria una risposta on-off, in bianco e nero, e la psichiatria debba dargliela come se fosse una scienza esatta: per mandato, di fronte a una Corte d’Assise non può ammettere che l’animo umano le resta in gran parte insondabile.

 

Se però le righe sopra possono far sospettare che qui si stia sostenendo una tesi giustificatoria o innocentista, bisogna subito chiarire: Alessia Pifferi è (o è stata) una persona detestabile, autocentrata ed egoista, una truffatrice priva di alcuna empatia e bugiarda fino al grottesco; al primo processo poi, forse mal consigliata, si è rifiutata di assumersi la responsabilità per l’accaduto accusando invece gli altri - la madre, la sorella, il compagno - di averla lasciata sola a gestire la maternità. Non è moralmente condivisibile alcuna forma di solidarietà verso la responsabile della morte orrenda di una piccola innocente. Eppure non ci si può approcciare a questa vicenda con il tifo da stadio di chi vuole “gettare la chiave” e chi invece simpatizza per la “poveretta abbandonata dalla famiglia e usata dagli uomini”: più si conosce la storia e la vita di Alessia Pifferi più si comprende quanto siano state superficiali le sentenze assertive che in un senso o nell’altro sono arrivate dai commentatori televisivi o dagli utenti dei social. Semmai come opinione pubblica ci si può chiedere se abbia senso riabilitativo tenere chiusa in carcere per sempre questa donna allo stesso tempo lucida e confusa, che forse non ha mai consapevolmente voluto la morte della figlia ma senz’altro ha agito in modo da provocarla.

 

Tra tanti dubbi, c’è però anche qualche certezza. Ad esempio il fatto che questa vicenda “di cronaca nera” si intreccia con profonde questioni non solo psicologiche ma anche sociologiche e perfino urbanistiche, oltre che mediatiche e giudiziarie. E sono queste le domande - intellettualmente affascinanti - di un libro-inchiesta sul caso Pifferi in uscita il 24 gennaio. Si intitola “Un futuro gioioso davanti”: sono parole pronunciate dalla stessa Pifferi in un messaggio a un’amica due mesi prima della tragedia, quando pensava di aver risolto i suoi problemi, di aver trovato un marito e un modo di scappare da Ponte Lambro con la figlia; il “futuro gioioso davanti” si è invece rapidamente trasformato nella morte della piccola e nell’ergastolo per lei.

 

Ecco: Ponte Lambro, il palcoscenico di questa storia. Un quartiere imprigionato fra l’autostrada e il fiume-cloaca che gli dà il nome, un rettangolo di cemento e disagio, uno storico fortino della droga e un ricettacolo di tutte le migrazioni verso Milano, da quella lombardo-veneta un secolo fa fino ai disperati che oggi sbarcano a Lampedusa, passando per le migliaia di meridionali italiani che un prefetto sadico deportò e concentrò qui prelevandoli dalle case occupate in città negli anni Settanta. Ponte Lambro, un dedalo di strade senza uscita che finiscono nel nulla come quella in cui viveva Alessia Pifferi: una lingua d’asfalto secondaria all’inizio della quale un cartello avvisa che lì dentro tutti gli edifici sono il numero 20 della via accanto, quindi per distinguerli ci hanno messo una barra seguita da altri numeri. Sicché al tempo della tragedia Alessia abitava al 20 barra 16, la donna che le teneva ogni tanto la bambina al 20 barra 10, l’anziana che l’aiutava economicamente al 20 barra 11, la sua migliore amica sempre al 20 barra 11, la vicina chiamata di corsa dopo la morte di Diana al 20 barra 18 - e al 20 barra 16 vivevano sia l’ex marito sia l’uomo che le procurava i clienti nel periodo in cui Pifferi si è prostituita. Al processo tutto quel numero 20, con le diverse barre, è stato chiamato a testimoniare, in un’esibizione corale di ignoranza e degrado, in una sfilata di paure e dialetti. Alessia è cresciuta e Diana è morta in quella via soffocata, al primo piano di una palazzina fatiscente, dentro un ghetto di cemento rinchiuso tra il Lambro e la tangenziale, accanto a un ecomostro dove l’eroina veniva venduta sulle bancarelle.

 

Ma - di nuovo - raccontare non è giustificare e il libro in cui per mesi mi sono immerso incontrando mille testimoni non è una giustificazione ma, appunto, un racconto. Un racconto in cui però nulla è stato inventato per quanto romanzesca sia tutta la vicenda, per quanto i personaggi reali sembrino protagonisti di una pièce teatrale che nessun drammaturgo avrebbe potuto immaginare, impregnata com’è di amore, odio, ambizioni, sogni, povertà, lusso, tradimenti, codardie, sesso, bugie, inganni. E poi: siti d’incontri, serate in limousine, falsi battesimi, latitanze dei servizi sociali, rotture sentimentali seguite da riconciliazioni poi da nuove rotture. Infine la morte atroce di una bambina, seguita da voraci cannibalismi mediatici. Una storia in cui pochi sono gli innocenti e molti gli ipocriti, anche se una è la colpevole e una la vittima. A quest’ultima è dedicato il libro: il 29 gennaio, nel giorno in cui inizierà il processo d’appello per la sua morte, se fosse viva compirebbe quattro anni.