Buio in sala
Duro come il cemento
Grandioso, eccessivo, martellante. Con una regia d’autore e un grande cast “The Brutalist” porta il cinema americano a livelli ormai inusuali
Dalle tenebre alla luce, poi di nuovo nelle tenebre. Quindi ancora nella luce ma con un ricordo persistente del buio, della paura, della sottomissione. Come molti grandi film, “The Brutalist” anticipa nel folgorante prologo il senso della parabola. Scampato ai lager nazisti, una moglie malata che lo raggiungerà solo più tardi, il grande architetto ungherese Laszlo Toth (Adrien Brody) sbarca a Staten Island nel 1947, piegato ma non vinto.
Il tono è intimo e insieme solenne, come le percussioni che lo accompagnano nel Nuovo Mondo. Il resto sarà burrascoso e contraddittorio, una storia di successo e persecuzione. Gloriosa, parziale, paradossale. Soprattutto brutale, nei vari sensi del termine. Artista del cemento e dei volumi squadrati cari all’architettura “brutalista”, Toth è infatti un costruttore e in parte un distruttore (il personaggio è immaginario ma il nome è quello dell’australiano di origini magiare che nel 1972 vandalizzò la Pietà di Michelangelo, difficile sia un caso). Un creatore destinato, come tutti i creatori, a combattere per le proprie idee. E a sopravvivere accettando la protezione di un mecenate più interessato al potere che alla bellezza. Un miliardario di Filadelfia, Harrison Van Buren (Guy Pearce), che un giorno lo esalta e uno lo umilia; gli commissiona opere grandiose, poi lo mortifica imponendo controlli, modifiche, tagli al budget e alle idee. Uno di quei magnati bigger than life cari al cinema Usa, da Orson Welles (“Quarto potere”) a P.T. Anderson (“Il petroliere” e “The Master” sono i precedenti più cospicui di “The Brutalist”). Destinato a simbolizzare - con qualche insistenza - il misto letale di fascinazione, fastidio, rapacità, generato nell’aristocrazia wasp da quel geniale immigrato ebreo e dalla sua famiglia.
Così “The Brutalist” procede tra momenti memorabili, specie quando scava nel protagonista (vedi alle voci sesso e droga), e altri un poco sovraccarichi. Come in quel lungo intermezzo a Carrara, in cerca di marmo, culminante in una scena madre che condensa quanto fin lì era stato suggerito, bisogna dire, meno brutalmente. Poco importa del resto: col suo respiro da cinema classico, screziato da dissonanze moderniste, il terzo film di Brady Corbet riporta il cinema americano ad altezze oggi insolite. Sorretto da un cast vasto quanto eccellente (i familiari di Toth sono essenziali nel disegno complessivo), prodotto in tutta indipendenza al costo ridicolo per gli Usa di 10 milioni di dollari, vanta sette Golden Globes e dieci meritate candidature agli Oscar. Non è vietato sperare.