Un padre di sinistra, un figlio che diventa fascista. Nel bel film “Noi e loro” di Delphine e Muriel Coulin. “I registi hanno sempre messo in scena personaggi femminili. Adesso tocca a noi”

Amereste ancora vostro figlio se diventasse fascista? Tagliata all'osso, è questa la prima delle domande che brucia dentro “Noi e loro”, in originale “Jouer avec le feu”, giocare col fuoco, terzo film delle sorelle Delphine e Muriel Coulin, in sala dal 27 febbraio dopo aver vinto a Venezia il Leoncino d'Oro Agiscuola («un premio assegnato da una giuria di giovanissimi», si inorgogliscono le registe) e la Coppa Volpi per Vincent Lindon.

 

Un risultato importante per queste due bretoni, fisico minuto e sguardo lampeggiante, che prima di andare sul set hanno svolto una lunga inchiesta sul campo. «Anche se abbiamo dovuto rinunciare a farla dal vivo: nei gruppi neofascisti francesi le donne quasi non esistono, ci individuavano subito», sospira Muriel Coulin. «Meglio studiare le testimonianze e incontrare giornalisti e sociologi. Il romanzo di Laurent Petitmangin che abbiamo adattato (“Quello che serve di notte”, Mondadori) era perfetto per mettere a fuoco un contesto sempre più inquietante anche perché sposa il punto di vista del padre, più vicino a noi per ovvie ragioni generazionali (Delphine è nata nel 1972, Muriel nel 1965). Ma ci siamo chieste a lungo se non conveniva scompigliare un po' le carte. In fondo è una storia tutta al maschile. Cosa ne sapevamo noi?».

 

In realtà è proprio questo a rendere “Noi e loro” così interessante, considerando che dai Lumière ai Coen, dai Taviani ai Dardenne, la storia del cinema trabocca di fratelli ma le sorelle registe, specie in coppia, sono mosche bianche. «Per un momento abbiamo pensato di trasformare questo padre vedovo alle prese con due figli in una madre vedova. O di fare del fratello minore, assennato ma anche capace di prendere le difese del primo, una sorella minore. Ma cambiava tutto e non funzionava più niente», ammette Delphine. «E poi era giusto: per un secolo registi uomini hanno messo in scena personaggi femminili. Ora tocca a noi». Così Vincent Lindon, ormai erede ufficiale di Jean Gabin, ha dato sguardo e sgomenti all'ennesimo “prolo” della sua carriera. Mentre il figlio che sgarra imbrancandosi in un pericoloso gruppo di ultras, e quello che riga dritto preparando l'esame di ammissione alla Sorbona, sono gli eccellenti Benjamin Voisin e Stefan Crepon, due “fratelli” di fatto, compagni di studi legati da lunga amicizia e per anni perfino coinquilini.

 

Qui però si impone la seconda domanda che consuma il protagonista in questo film sempre così corporale: dove ho sbagliato? Come può accadere che un ferroviere di Metz, discendente da minatori, testa e cuore da sempre a sinistra, veda improvvisamente suo figlio frequentare cattive compagnie e anche peggio? Sulle prime quel padre vedovo si rifiuta perfino di crederci. Pensa che quelle su suo figlio Fus siano solo voci, o uno sbandamento passeggero. Intanto però i segnali si moltiplicano. E anche se il film si concentra sull'intimità domestica, concedendosi solo pochi e calibrati sguardi all'esterno, l'incendio dilaga. Forse a essere colpita non è solo una famiglia. Dietro quel genitore palpita una crisi più generale.

 

«Il romanzo di Petitmangin racconta un padre che guarda il figlio andare alla deriva senza sapere come fermarlo. Qui in certo modo siamo noi a guardare la Francia. E quella città di provincia in Lorena, zona di frontiera, rappresenta un paese che temiamo possa prendere la direzione del vostro», sintetizzano le registe. «Sarebbe tremendo ritrovarsi fra pochi mesi con l'estrema destra al potere. In fondo anche in Austria nessuno lo credeva possibile!»

 

L'Italia come laboratorio del cambiamento, nel bene e più spesso nel male? Vecchia e non sempre illuminata tentazione dell'intellighenzia francese. Ma “Noi e loro” segue strade diverse. La chiave forse sta in un'altra variante combinatoria, alla Alain Resnais, che ha sfiorato le sorelle Coulin. «Volendo invertire i fattori, potevamo lavorare su un figlio democratico che vede il padre diventare fascista. Avrebbe funzionato lo stesso». Ma si sarebbe persa per strada la protagonista occulta del film: «La madre, che è sempre lì anche se non la vediamo mai. Il perno mancante di quella famiglia, che dopo la sua scomparsa ha superato enormi difficoltà, riassunto in una sedia vuota». 

 

Altro che film maschile insomma. Mettere a fuoco un mondo richiede uno sguardo esterno. E se il cinema francese finora ha indagato in lungo e in largo la radicalizzazione dei giovani islamici, pochi hanno affrontato il peso crescente dell'estrema destra nelle periferie bianche. Forse non è un caso che lo abbiano fatto due donne. Toccando anche un'altra questione centrale: «Come reagire quando qualcuno a cui magari vogliamo bene sviluppa idee indifendibili? Non si tratta di capire solo fino a che punto arriva l'amore incondizionato di un padre, ma di elaborare una strategia di risposta. Trincerarsi nel disprezzo o nella distanza non paga. Non sarà certo questo a convincere la gente a non votare a destra», concludono le registe. E qui torna in mente una delle scene più belle del film, quella che vede il padre insegnare a ballare il rock al figlio “degenere” in un momento che è insieme amore, duello, confronto, e lascia a bocca aperta il fratello minore. Il cameratismo non si nutre solo di idee facili e di odio revanscista ma di contatto fisico, gruppo, appartenenza, beni un tempo comuni e oggi sempre più rari. Ecco, “Noi e loro” racconta con forza anche questo.