Lo sappiamo: è banale questo male. Lo si impara a scuola in maniera traumatica, affinché la Storia, in tutta la sua violenza, penetri nel nostro immaginario e non si ripeta. Hannah Arendt, nell’assistere, come inviata del New Yorker, ai processi per i crimini della Shoah nel 1961 a Gerusalemme, teorizza «la banalità del male». Durante il processo, il funzionario tedesco Adolf Eichman accusò chi era al potere di aver abusato della sua «obbedienza». Disse: «Il suddito di un governo buono è fortunato, il suddito di un governo cattivo è sfortunato: io non ho avuto fortuna». Nel libro, esecutori di crimini di guerra sono descritti come gente qualunque, come un «modesto postino»: persone che avevano non solo eseguito gli ordini, ma anche obbedito alle leggi. Con quella che viene definita Kadavergehorsam, «obbedienza cadaverica».
Sapere che il male è banale, che prende le persone semplici e fa di loro dei freddi esecutori non ha impedito alla storia di ripetersi; con tanto di riprese live-stream. Proprio come nell’etimologia della parola Olocausto, tutto brucia. La guerra è ovunque: è la nostra società. Nei lager di Stato le persone senza documenti sono drogate, torturate e uccise e in qualche modo questo sembra non riguardare nessuno. A Roma, nel Cpr di Ponte Galeria, le mura che circondano i reclusi sono alte 8 metri e incoronate da un fossato paludoso. Durante il presidio del 2 febbraio scorso, intorno al Cpr c’erano tre camionette e un centinaio di solidali. Il presidio comunicava oltre le mura con interventi, musica e cori: «Freedom, hurriya, libertà». Poco dopo l’inizio del presidio, i reclusi sono riusciti a salire sul tetto per farsi vedere dai solidali riuniti davanti al lager. Hanno gridato e si sono sbracciati oltre le reti. Le forze dell’ordine li hanno presi con violenza e nascosti di nuovo. Una, due, tre volte. Dalle reti si è poi alzato un fumo nero proveniente dalla sezione maschile che richiama il film di Jonathan Glazer, “La zona d’interesse” (2023). Il fumo parla: siamo qui. La sorella di Ousmane Sylla (che nel Cpr si è tolto la vita un anno fa) ha parlato dal microfono con gli occhi puntati sul tetto, dove una mezz’ora prima qualche recluso era riuscito a salire. Ha detto: «Non mi batto solo per chiedere giustizia per mio fratello, ma anche per voi che siete ancora lì dentro».
Ci si scorda che le macchine di sterminio sono vere e proprie macchine che qualcuno ha pensato, progettato, finanziato e costruito. Per quanto la guerra sia sempre più automatizzata, qualcuno la facilita, la incita. Nei Cpr qualcuno esegue, ordina, pulisce. Intorno ai Cpr qualcuno reprime, nasconde. Le geografia della tortura è nascosta in piena vista. In Germania ci si ricorda bene il nome di J.A. Topf & Söhne, azienda di forni crematori e camere a gas. Così in Italia deportazione e tortura hanno così tante sigle con sé: ogni persona che sparisce nei Cpr è opera di un lavoro collettivo di coordinamento affinché questo accada in maniera più asettica possibile. Sulla mia copia del libro di Arendt c’è una dedica sulla prima pagina: «Ho la consapevolezza che il miglior antidoto alla banalità del male sia tutta quella gioventù non indifferente che impegna gli anni migliori combattendo per un mondo più giusto». Ma la gioventù non basta a fermare questa macchina. È profetico il retro di copertina del libro: «I macellai di questo secolo non hanno la grandezza dei demoni; sono dei tecnici, si somigliano e ci somigliano».