Liti burocratiche, carenze d’organico, amministrazioni distratte o colluse, prefetti non sempre vigili. Così i beni tolti ai boss languono nell’incuria. E i padrini gongolano.

Una villa arroccata su un promontorio che domina il mare, con una vista che i residenti considerano tra le più incantevoli della costa ionica. Le Cannella, frazione di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, dove, al termine di una strada che si anima d’estate ma è deserta in inverno, c’è uno stabile, su due piani, con pareti sporche e scrostate. Apparteneva al boss Nicola Arena, uno dei più potenti della provincia. A capo di una delle cosche della ’ndrangheta più temute del territorio, ha esercitato per decenni un controllo incontrastato nella provincia, influenzando profondamente il tessuto sociale ed economico. La prima denuncia a 15 anni, nel 1993 il mandato di arresto. Latitante per tre anni, viene arrestato nel 1996, quando in Parlamento viene approvata la legge 109/96, che prevede il riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata per scopi sociali.

 

Le proprietà del boss vengono sequestrate ma restano inutilizzate per quasi dieci anni a causa del commissariamento del Comune per infiltrazioni mafiose. Durante il mandato della sindaca Carolina Girasole (2007-2013), vengono finanziati quattro progetti di riqualificazione dei beni confiscati, tra cui la villa di Arena, per la quale si ottengono 450mila euro per trasformarla in una colonia climatica per persone con disabilità. Nel 2012 iniziano i lavori, ma nel 2013, dopo la fine del mandato di Girasole, l’edificio viene vandalizzato. La nuova amministrazione non ripara i danni, e l’edificio resta abbandonato.

 

L’attenzione sulla casa di Arena viene però riaccesa da un gruppo di studenti guidati dalla docente Rossella Frandina. Partecipando a un progetto di monitoraggio sui beni confiscati, gli studenti hanno studiato il destino dei fondi di coesione europei destinati a questi beni. «Abbiamo voluto capire se i progetti fossero stati realizzati o abbandonati», spiega la professoressa Frandina. Grazie all’aiuto del giornalista del Quotidiano del Sud, Antonio Anastasi, il caso viene portato brevemente all’attenzione del pubblico. Ma la situazione resta desolante: «Dopo anni di totale abbandono, il giardino è diventato una discarica, con lastre di amianto e altri rifiuti».

 

Il caso della villa Arena non è isolato. Anche la villa Colacchio di via Nilde Iotti, confiscata ad Antonio Colacchio del clan Arena, ha subito un destino analogo: nonostante un finanziamento regionale di 650mila euro nel 2013, il progetto è stato abbandonato con la mancata rielezione di Carolina Girasole e l’indifferenza del successore Gianluca Bruno, poi coinvolto nell’operazione antimafia Jonny. Destinata a diventare una scuola, la villa è stata vandalizzata e abbandonata dal 2021, ma nel 2024 la sindaca Maria Grazia Vittimberga ha bandito l’assegnazione, promettendo un nuovo asilo. Simile sorte è toccata all’immobile destinato a diventare la casa della legalità “Piersanti Mattarella”, vandalizzato a dicembre 2023 e ancora inutilizzato. 

 

La vandalizzazione dei beni già assegnati ostacola un processo già lento: «La villa Arena e quella di Colacchio rientrano in confische del 1996», spiega Umberto Ferrari, responsabile per Libera del Crotonese. «Da quasi un decennio, nella provincia il numero di beni confiscati trasferiti agli enti locali è rimasto invariato. I beni esistono, ma sono inutilizzati». «Inoltre – aggiunge – il continuo ricambio dei prefetti influisce sull’impegno verso il terzo settore e le associazioni, soprattutto perché dipende dalle inclinazioni individuali. In passato, avevamo prefetti che ci coinvolgevano attivamente, ma negli ultimi anni questa dinamica è cambiata».

 

Il quadro nazionale però non è più felice: ovunque i beni confiscati sono in stato di abbandono. Secondo l’Agenzia nazionale Anbsc, in Italia ci sono oltre 15mila beni sequestrati, di cui il 40 per cento inutilizzati o abbandonati. Libera, attraverso richieste di accesso agli atti, ha evidenziato la mancanza di risorse e competenze nei Comuni come principale ostacolo al riutilizzo sociale di queste proprietà. In molte regioni, specie del Sud Italia, i beni sono lasciati al degrado. Un’indagine di avviso pubblico del 2023 ha mostrato che il 60 per cento dei Comuni con beni confiscati ha difficoltà nella loro gestione, a causa di iter burocratici complessi e scarsità di personale qualificato. Anche la Corte dei Conti si è espressa sul tema con una nota nel maggio 2024, criticando la lentezza nella destinazione dei beni e la frammentazione delle competenze tra Anbsc, prefetture e Comuni. «Il problema è che i beni confiscati necessitano di una programmazione, che al momento manca», afferma Rosa Laplena, esperta di gestione dei beni confiscati da oltre vent’anni e autrice del libro “I beni confiscati alla criminalità organizzata. Dalla legge Rognoni La Torre ad oggi”. «Si sta tentando di intervenire attraverso conferenze di servizio e con il supporto dell’Agenzia, ma è fondamentale che i Comuni possano decidere se assumersi o no la gestione di tali beni. Alcuni Comuni non li vedono come un’opportunità». Quando poi sono abbandonati e quindi in stato di degrado, oppure sono stati vandalizzati, è ancora più difficile prenderli in gestione: «Spesso i Comuni non riescono a trovare i finanziamenti e non rischiano di prendere un bene per cui si sa già che si dovrà far un grosso lavoro di riqualificazione». Il tema dei finanziamenti, soprattutto nel Sud Italia, rappresenta un altro nodo cruciale: «È scomparsa dalla legge 109/1996 la disposizione che prevedeva che una parte dei fondi fosse gestita dalle prefetture per finanziare progetti legati alla gestione dei beni confiscati».

 

Attualmente, il fondo unico Giustizia viene utilizzato per coprire le spese del ministero, e il 3 per cento destinato all’Agenzia non è finalizzato a progetti concreti. «Sarebbe fondamentale istituire un fondo per sostenere questi progetti. Inoltre, è indispensabile creare tavoli di lavoro in cui pubblico e privato possano collaborare», conclude Laplena.

 

«Il patrimonio dell’agenzia è molto vasto e raramente arriva in condizioni di destinabilità immediate», spiega Maria Rosaria Laganà, direttrice dell’Anbsc. Spesso i beni presentano criticità catastali, giudiziali o fattuali: «Un bene può essere destinato solo con la confisca definitiva, anche se è possibile gestire quelli in confisca provvisoria». L’Agenzia gestisce anche beni in confisca di secondo grado, ma prima della destinazione occorre risolvere tutte le criticità. La mancanza di organico è un ulteriore ostacolo: «Servirebbero 300 persone, con l’obiettivo di arrivare a 400. Oggi contiamo circa 200 unità, molte provenienti da mobilità o comandi esterni, il che genera ricambio e instabilità. Stiamo lavorando per colmare il gap con un bando per 100 persone».

 

Mancanza di personale e vastità del patrimonio sono le condizioni che non consentono all’agenzia di fare un monitoraggio costante, cosa che fa aumentare i rischi di vandalismo o stato di abbandono delle proprietà: «Molti immobili sono danneggiati dai proprietari prima della confisca definitiva. Altri sono occupati, spesso da familiari del prevenuto, e il rilascio richiede interventi complessi. Non tutti accettano che il bene sia diventato proprietà dello Stato e tentano di impedirlo, rovinandolo». E la criminalità organizzata vince sempre quando riesce a dimostrare che è lo Stato a portare il deserto.

 

Articolo realizzato grazie al contributo del progetto Aware.Eu