La prima fase della tregua per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas sembra procedere a fatica, tra i costanti ritardi nella consegna di ostaggi e prigionieri. E nello stesso tempo, continuano anche le dimostrazioni di forza durante le liberazioni degli ostaggi israeliani da parte di Hamas. Fra tutti, ha suscitato scalpore il caso di Omer Shem Tov e il bacio sulla fronte di due membri di Hamas al momento della riconsegna. Mentre Hamas e il governo israeliano si scambiano messaggi attraverso attese, rimandi e simboli, la tregua ha rischiato di spezzarsi definitivamente a causa della restituzione del corpo di una donna palestinese al posto dell’Israeliana Shiri Bibas. È in ritardo, nuovamente, anche la scarcerazione di 620 detenuti palestinesi, additata come una “palese violazione del cessate il fuoco” da Hamas.
A Nord della Striscia manca tutto
Nel frattempo, a Nord della Striscia di Gaza, centinaia di migliaia di persone sono tornate alle proprie case, dopo che 15 mesi di bombardamenti ne hanno distrutto la quasi totalità «in alcune zone fino al Novanta per cento,» come riferisce Mohammed Iskafi, medical coordinator di Palestinian Medical Relief per le operazioni a Gaza. Iskafi è in contatto quotidiano con gli operatori nella Striscia. Chi è tornato, riferisce, «passa le giornate a scavare a mani nude tra le macerie, alla ricerca dei dispersi, che si stima siano tra i sette e i diecimila». Ogni giorno si trovano decine di corpi, spesso irriconoscibili, che in molti casi vengono sepolti in fosse comuni. Mancano cibo, acqua, farmaci: «I camion con gli aiuti sono pronti, ma Israele non li fa entrare nella Striscia». Dall’inizio del cessate il fuoco sono entrati una media di 50 camion di aiuti al giorno. Le Nazioni Unite stimano che ne servirebbero fino a 500.
Prosegue l’operazione muro di ferro
In Cisgiordania la situazione non fa che peggiorare. Dopo l’esplosione di tre autobus a Tel Aviv nella notte tra il 20 e il 21 febbraio legata, secondo la polizia israeliana, a un “sospetto attacco terroristico”, Netanyahu ha ordinato una nuova «intensa operazione contro i centri del terrorismo» in Cisgiordania, schierando nei territori occupati occupati altri tre battaglioni. L’invio di truppe nonché lo schieramento di carri armati in West Bank (per la prima volta dal 2002, durante la seconda intifada) fa parte dell’operazione “Muro di Ferro” iniziata in Cisgiordania all’indomani del cessate il fuoco a Gaza con l’obiettivo di “combattere il terrorismo”. Anche in questo caso, i simboli abbondano: il primo ministro si è recentemente fatto fotografare assieme ad alcuni soldati in una casa nel campo profughi di Tulkarem - da cui l’esercito aveva appena cacciato i proprietari, una famiglia palestinese. Un chiaro, ulteriore via libera all’occupazione. Le forze armate restano schierate anche a Jenin con il compito di «impedire ai palestinesi di fare ritorno». In tutta la regione si registra quella che l’Autorità palestinese ha definito «un’escalation di aggressioni». All’esercito in Cisgiordania è stata data, dalla scorsa settimana, anche l’autorizzazione a sparare per uccidere nel caso in cui i soldati sospettino che un palestinese stia piazzando un esplosivo o “manomettendo il terreno”. Il 22 febbraio a Hebron e a Jenin sono stati uccisi due minori, Ayman Nasser al-Haymouny e Rimas al-Amouri, di 12 e 13 anni. Entrambi colpiti da soldati che si trovavano all’interno di mezzi corazzati.
Cisgiordania come Gaza A parlare è ancora Iskafi: «Si sta ripetendo quello che è accaduto a Gaza, dalla distruzione totale delle abitazioni nei campi allo sfollamento forzato. Quasi 50mila persone sono state cacciate dalle proprie abitazioni nelle ultime settimane in Cisgiordania. Più di 25 persone sono state uccise a Jenin e ora sta accadendo la stessa cosa a Tulkarem. È lo stesso quadro che abbiamo visto a Gaza, con la differenza che la Striscia è completamente chiusa». Anche Mediterranea Saving Humans, associazione italiana attiva in Cisgiordania con un progetto di reportistica delle violenze contro la popolazione civile palestinese, osserva un andamento simile: «Di fatto ormai la West Bank si è trasformata in una serie di isole, dalle quali è impossibile entrare o uscire» commenta Denny Castiglione, coordinatore del progetto. «Sappiamo per certo che perfino le ambulanze vengono fermate e spesso nemmeno viene autorizzato il loro accesso ai villaggi. Il blocco dell’energia elettrica e l’accesso all’acqua sempre più ristretto sono azioni di guerra vera e propria. L’obiettivo è chiaro: diminu - ire il peso dei cittadini palestinesi nei ter - ritori occupati impendendo di fruire delle proprie terre e distruggendo le abitazioni. Tutto ciò combinato con la dissoluzione de facto del potere amministrativo e politico dell’autorità nazionale palestinese».
La violenza dei coloni
Nei territori in area C, sotto controllo civile e militare israeliano secondo gli accordi di Oslo, dove è attiva Mediterranea, alla violenza dell’esercito si unisce quella dei coloni. «L’obiettivo,» spiega Ali Awad, attivista palestinese e residente del villaggio di Tuba «è quello di cacciarci da queste terre, per riuscire ad annettere l’intera regione». Le terre a cui si riferisce coincidono con una ventina di villaggi nella zona di Masa - fer Yatta, colline a Sud di Hebron, tra la cit - tà di Yatta a Nord e la green line – il confine de facto con il territorio di Israele propria - mente detto – a Sud. Su un’ampia porzione del territorio è stata inoltre costituita una zona militare chiusa. «Uno stratagemma» spiega Awad, «per imporre alle perso - ne di lasciare i villaggi». Qui, esattamente come racconta Iskafi, l’impressione è che si stia replicando, in maniera più frammentata, quanto è accaduto negli ultimi due decenni a Gaza: «L’obiettivo delle violenze dei coloni» aggiunge Mohammed Hurraini, attivista del vicino villaggio di Tuwani, «è quello di rendere la vita intollerabile, in modo che le persone si trasferiscano nelle città in area A, che vengono poi chiuse fino a diventare delle piccole Gaza» (vedi intervista nel box a pagina 66). Nelle ultime settimane, a partire dal cessate il fuoco, gli ingressi e le uscite dei villaggi e delle città nel Sud della Cisgiordania vengono spesso chiuse da polizia o esercito israeliani. E si finisce così per trasformare queste cittadine in veri e propri ghetti.
Demolizioni e sfollamenti
Allo stesso tempo proseguono, a un ritmo sempre più incalzante, le demolizioni. In Masafer Yatta il 10 febbraio sono state demolite undici abitazioni nel piccolo villaggio di Khallet Ad Daeba: «In un paio d’ore», racconta Michele, attivista di Mediterranea presente sul campo, «una ruspa e un bulldozer hanno distrutto otto abitazioni, lasciando senza un posto dove vivere diverse famiglie». Il 26 febbraio, sono state demolite altre sette abitazioni nello stesso villaggio. Dall’inizio dell’anno sono 234 le strutture abbattute dall’esercito di Tel Aviv in Cisgiordania, 177 delle quali si trovavano nell’area C. «Da quando siamo tornati sul campo,» commenta ancora Castiglione, «vediamo una situazione di tensione crescente. Il piano di demolizioni attuato dal governo israeliano è nettamente accelerato. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, stanno sparendo i villaggi della Cisgiordania».