Cultura
marzo, 2025

Quei magnifici, inquieti diciannove

Il regista Giovanni Tortorici.
Il regista Giovanni Tortorici.

Scoperto a Venezia e nei festival di mezzo mondo “Diciannove” è uno degli esordi più insoliti degli ultimi tempi. Con la firma di un giovane, sorprendente regista, Giovanni Tortorici

Quanto c'è di vero nel mio film? Tutto. È autobiografico al cento per cento». Giovanni Tortorici non ama le mezze misure e questa nel nostro cinema è già una benedizione. «Ho la mania di essere preciso, quindi ho cercato di attenermi a fatti realmente accaduti. Ma soprattutto mi sono dato meno limiti possibile, anche per non idealizzarmi. Qualcuno ha perfino detto che sono stato coraggioso. Ma avere coraggio significa esercitare una certa forza su se stesso. A me invece è venuto naturale».

 

Giovanni Tortorici (Palermo, 1996) è il regista di uno degli esordi più insoliti e vivificanti di questi tempi: “Diciannove”, come gli anni del protagonista Leonardo (Manfredi Marini), trasparente alter ego dell'autore. Un ragazzo di bell’aspetto e buona famiglia che al primo anno d'università lascia la Sicilia e va a studiare Economia a Londra, dove già vive sua sorella, per far contenti mamma e papà. Ma presto si scoccia di tutto. Di sua sorella, della sua amica, dei loro yogurt, di quelle seratine in discoteca, dove peraltro rimorchia a occhi chiusi. Sicché, dopo rapido giro su Internet, l’inquieto Leonardo se ne va a Siena per seguire la sua vera passione: la letteratura italiana. Salvo scoprire che malgrado la bellezza del luogo i toscani sono ispidi (eufemismo), i professori mediocri (e carogne), le coinquiline si nutrono di carne a tutte le ore (e lui è vegetariano). Per non parlare dell’amore anzi del sesso, che con le sue prospettive virtualmente infinite (Etero? Gay? Bi? Boh!) getta Leonardo in una confusione definitiva. Oltre che, paradossalmente, in un isolamento totale. Rischiarato solo da letture matte e disperatissime di classici incompresi se non irrisi dai suoi docenti. Ma si può vivere di Dante, Leopardi, Pietro Giordani, Gasparo Gozzi? O peggio fare marchette sul web per finanziare l'acquisto di un'edizione originale dell' “Orlando innamorato”?

 

«Queste idee così rigide e puriste in fatto di letteratura appartenevano al me stesso di allora e alla violenta nevrosi che mi caratterizzava», spiega sorridendo il regista. «Sublimavo tutto frequentando autori remoti mentre per la lingua aderivo a un’estetica primo '800 sulla scorta di Leopardi e delle prime lotte per l'indipendenza italiana. Era tutto molto sintomatico», come spiega anche lo psicanalista Sergio Benvenuto in una scena crudele e liberatoria. Difficile infatti liquidare con un’alzata di spalle non solo Gramsci e Pasolini («scrivono male» sentenzia Leonardo) ma anche Gadda e Fenoglio se non in nome di una purezza “degna di un militante dell'Isis”. Ma in “Diciannove” c'è anche una nota di umorismo che corre come un basso continuo dietro i momenti più “cringe”, si direbbe oggi, cioè imbarazzanti. Riscattando la meschinità di tante figure di contorno. E la rigidità di quel protagonista che negli spettatori di altre generazioni evocherà forse il primissimo Nanni Moretti. «Il punto di vista è quello di Leonardo. Non mi interessavano le nevrosi degli adulti, visto anche il potere che hanno sui giovani, ma l'ironia dovrebbe riscattare tutto». Certe scene, certi atteggiamenti, sono imperdonabili. «Ma anche irresistibili. Lo erano perfino sul set, mentre le giravamo. Detto questo, le mie sorelle mi hanno tranquilizzato, ma i miei genitori diffidano e per ora hanno visto solo il trailer...».

 

Inutile, del resto, schierare il film di qua o di là. Il bello di “Diciannove” è proprio il non rappresentare niente e nessuno se non il regista e le sue nevrosi, loro sì universali. Scoperto a Venezia e poi nei festival di mezzo mondo, da Göteborg a Bombay, da Toronto alla Viennale, ”Diciannove” in fondo segue la via indicata anni fa da Arbasino, per cui in arte i figli si alleano con i nonni per far fuori i padri. Anche se Tortorici, che al Novecento letterario italiano è arrivato facendo uno strano giro che passava da Papini, Prezzolini e dal Bacchelli del “Diavolo al Pontelungo” («Bakunin visto da un cattolico conservatore mi ha fatto scoprire l'anarchia!»), ha avuto accanto almeno un fratello maggiore: Luca Guadagnino.

 

«Devo dire che Guadagnino è stato fondamentale. Quando gli facevo da assistente mi ha demolito dalla testa ai piedi. Ogni idea, ogni opinione: tutto. Poi come produttore di “Diciannove” mi ha dato sostegno e libertà». Concedendogli tra l'altro di non avere nomi noti nel cast. E di girare un film molto personale, a tecnica mista (le fantasie più intime sono visualizzate con le animazioni di Margherita Giusti), ma anche sporco, corporale, come dev'essere un film sulla gioventù, che Leonardo perda sangue dal naso o che appaia una lacrima sul viso della sorella, colpevole ma non troppo.

 

«Guadagnino me ne diceva tante che di notte avevo gli incubi. Gli regalai “Il diavolo” di Papini, autore bollato come fascistissimo, e praticamente me lo tirò in testa». Ma qualcosa deve avere funzionato se Tortorici fra poco più di un mese girerà il suo secondo film, “Kettyc'è”, dal nome della protagonista. «Una storia di 15enni a Palermo, scritta a 22 anni, che indaga su una certa adolescenza nell'Italia di Berlusconi, quando con l'arrivo dei registri elettronici e i continui controlli di polizia, iniziò a prendere forma quello stato di sorveglianza che oggi vediamo con tanta evidenza». Autobiografico? «Naturalmente. Sogno di fare solo film autobiografici, andando a ritroso fino ai tre anni di età. Ma è difficile lavorare con bambini così piccoli. E con i loro genitori».

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