Il suo nome è Nidal Yousef. È l’uomo che sta a capo del Consiglio comunale di Masafer Yatta. Ho avuto l’onore di intervistarlo per capire cosa succede in quel lembo di terra a sud di Al Khalil/Hebron. Masafer Yatta è un’area collinare che comprende molti piccoli villaggi, «ormai in gran parte spopolati» mi racconta. «Chi è rimasto vive di pastorizia» mi dice. Poi con un pizzico di orgoglio, aggiunge: «Qui produciamo formaggi e yogurt di tutto rispetto». Sorrido. Lui sa bene perché ho chiesto di intervistarlo ma non entra subito nel merito di quel dolore che, silenzioso, attraversa ogni singolo albero delle colline in cui vive. Presentandosi, Nidal, mi dice che il Consiglio di cui è a capo amministra tutti i villaggi di Masafer Yatta, tranne quello di Al-Tuwani. Mi spiega che per Al-Tuwani, negli anni di Ehud Olmert (primo ministro di Israele dal 2006 al 2009), era stato avanzato uno specifico programma di riammodernamento, essendo quel villaggio il più vicino a Yatta.
«Non ha guadagnato poi molto da quel piano, se non che è l’unico villaggio in cui le strade si possono asfaltare e l’unico in cui vi è elettricità. Per il resto, ad Al Tuwani le violenze sono all’ordine del giorno come in tutti gli altri villaggi».
«Che tipo di violenze?» gli chiedo. Fa un lungo sospiro. Lo sento perso. Probabilmente non sa da dove partire. Attendo che metta in ordine i pensieri. Le emozioni che si agitano dentro un uomo che vive da un’intera vita sotto occupazione militare devono essere una matassa di fili intricati. Si schiarisce la voce, pare che uno dei tanti fili abbia trovato una via d’uscita.
Comincia raccontandomi dell’ultima violenza vissuta in uno dei villaggi: Jinba. Nelle due notti precedenti all’eid (festa di fine ramadan) il villaggio è stato attaccato da coloni e soldati. Venerdì 28 e sabato 29 marzo. «Tutto è cominciato da un colono che ha picchiato un pastore violentemente, con la chiara intenzione di ucciderlo». Quando il pastore, gravemente ferito, è stato trasferito in ospedale, il colono ha chiamato altri coloni dagli insediamenti circostanti, affinché lo aiutassero a far esplodere la situazione e a far passare la violenza verso il pastore in secondo piano. I coloni hanno attaccato il villaggio, fatto irruzione in una casa e picchiato a morte un bambino. Alle due di notte i soldati sono accorsi nel villaggio. Il numero dei soldati più quello dei coloni superava la cifra degli abitanti di Jinba (solo 300). In un’operazione congiunta, soldati e coloni hanno attaccato tutte le case del villaggio nello stesso momento, tenendo legati i residenti di Jinba fino alle sei del mattino. «Hanno distrutto tutto, ogni cosa. Distrutto l’unica scuola del villaggio, l’unica moschea. Distrutte le case, scritto sulle pareti delle case “morte agli arabi”, hanno rubato capre, tutti i mezzi di sostentamento delle persone, hanno investito con le macchine alcuni agnelli». Anche la sua voce è distrutta, affaticata da quello che ha visto quella notte. «Ventidue ragazzi sono stati arrestati. Noi le vittime e noi i colpevoli», mi dice. Io prendo appunti e a un certo punto la mia penna smette di scrivere. È finito l’inchiostro, penso. Oppure a volte anche l’inchiostro fa fatica a sopportare il peso delle ingiustizie. «Qui è sempre così – continua – l’unica legge esistente a Masafer Yatta è quella dei coloni».
«Eppure da sempre mandate avanti una lotta pacifica». «Muqawame silmiye» mi corregge. “resistenza pacifica”, «perché quello che facciamo non è lottare, ma resistere, ancorarci a questa terra, stringere i denti». Rimango affascinata dalla differenza tra le due parole. Lotta e resistenza. Non ci avevo mai pensato prima. «E in cosa consiste questa resistenza pacifica – gli chiedo – e come è cambiata dopo il 7 ottobre?». Mi spiega che il perno della resistenza pacifica a Masafer Yatta è la documentazione. Documentare attraverso la scrittura, attraverso le riprese. Documentare ogni singola violenza per poi riuscire un giorno a portarla di fronte alle corti israeliane o ancor meglio, di fronte a quelle internazionali. Documentare affinché tutto resti scritto nei sigilli della Storia. Documentare per intimidire i coloni dall’attuare violenze, tenere sempre in mano una videocamera per farli vergognare. E poi collaborare. La collaborazione a Masafer Yatta è essenziale. Gli abitanti collaborano con i volontari del posto, con gli internazionali. Si sa, resistere a una tempesta è più facile quando a stringersi sono più mani. Gli internazionali e i volontari scortano i pastori, li aiutano nel proprio lavoro, accompagnano i bambini a scuola. Lì le strade non asfaltate sono pericolanti, poco sicure. Grazie a questa scorta i coloni sono disincentivati dal molestare bambini e pastori.

Bambini e pastori invece si sentono più tranquilli, protetti. Sentono di avere qualcuno che è già lì per essere un eventuale testimone. Principalmente sono tre i gruppi che portano avanti questa resistenza: Youth of sumud (i giovani della resilienza), lajnet al himaye wa al sumud (consiglio della protezione e della resilienza), e mudafi’in min ajl huquq al insan (i difensori dei diritti umani). Mi spiega che, anche se i nomi sono diversi, tutti i tre gruppi lavorano pressappoco nello stesso modo: documentazione delle violenze con tentativi di portare le cause di fronte a tribunali israeliani o internazionali, scorta da parte dei volontari e per ultimo, organizzazione di manifestazioni pacifiche.
«Dopo il 7 ottobre è tutto cambiato» mi dice. «La nostra resistenza pacifica ha subito una battuta d’arresto. È diventato impossibile documentare. È diventato impossibile tenere in mano una fotocamera, organizzare manifestazioni. La nostra resistenza pacifica è vista come resistenza violenza. Hanno messo tutto sullo stesso piano». Mi racconta che essere picchiati brutalmente dai coloni è qualcosa all’ordine del giorno, se ti vedono filmare si sentono legittimati ad utilizzare anche armi da fuoco. «Bisogna stare molto distanti se si vuole filmare, anche a due chilometri. Le violenze sono così tante che è impossibile registrarle tutte, i coloni sono inferociti, arrabbiati con noi, ma forse più con sé stessi. Ormai il mondo ha capito chi sono». Mi racconta che dopo il 7 ottobre gli avamposti e gli insediamenti sono raddoppiati, se non triplicati. In quegli insediamenti i coloni provano a vivere come gli abitanti di Masafer Yatta, cercano di mandare avanti la loro vita grazie alla pastorizia rubando le capre e gli asini dei palestinesi. In più rubano e rovinano i pannelli solari, essenziali poiché in tutti i villaggi (tranne quello di At-Tuwani) non c’è l’elettricità. Anche la distruzione delle case è una legge di quel luogo dimenticato. Nonostante tutte le zone di Masafer Yatta siano proprietà privata, lì le case vengono costantemente rubate o distrutte. E una volta demolite, al palestinese non è più concesso costruirne altre. E così, molti degli abitanti di quei villaggi vivono nelle grotte.
«Come fate a vivere così?» gli chiedo. «Siamo in pochi qui – mi risponde – chi ha deciso di restare, ha deciso che qui vuole anche morire». Rimango qualche secondo in silenzio. A volte solo il silenzio riesce a onorare la forza di certe parole.

«È un po’ migliorata la situazione dopo che il documentario “No other Land” ha vinto l’Oscar?» gli chiedo. «Sì – mi dice – qualcosa è cambiato. Ad esempio, dopo i fatti di Jinba è stata aperta un’indagine e immediatamente sono stati presi provvedimenti. Cosa molto rara qui. Già lunedì 31 marzo sono stati trasferiti alcuni soldati, tre sono stati dimessi, quattro sono stati arrestati per sette giorni. È chiaro che l’attenzione internazionale verso Masafer Yatta li spaventa».
Mi sento sollevata dalle sue parole. Ma subito aggiunge: «Ovviamente sono tutte bugie, un tentativo di pulirsi la reputazione. Perché sanno che dopo quel documentario i giornalisti di tutto il mondo trovano più accattivanti le notizie che giungono da qui. Per noi questi provvedimenti non significano niente, ci importano solo nella misura in cui ci permettono di tornare a denunciare, di tornare a registrare ogni cosa, perché sappiamo che forse d’ora in poi il mondo ci crederà, che saremo ascoltati».
Di nuovo le sue parole mi fanno riflettere. Se non altro, “essere ascoltati” è l’unica cosa che vuole un popolo che non ha diritti, che non si sente autodeterminato. Quando lo saluto, augurandogli che lui e la sua famiglia stiano sempre bene, mi dice «non ti preoccupare, noi qui amiamo la vita». Come se il solo amore verso la vita bastasse a proteggerli. Penso alla forte contraddizione che esiste a Masafer Yatta, un luogo in cui il tempo è scandito dai suoni della vita, dai galli che cantano, dalle pecore che pascolano. Un luogo in cui la vita scorre lenta, rilassata. Un luogo in cui ogni giorno i palestinesi seminano la vita mentre gli israeliani simulano la morte. Dodici villaggi di Masafer Yatta sono infatti dichiarati zona di esercitazione militare, chiamata “Zona di tiro 918”. In quei luoghi la vita dei palestinesi è fortemente contrastata. Eppure, loro sono ancora lì. E pur di restare lì, abitano dentro delle grotte. Una determinazione senza eguali. Allora forse sì, forse il solo amore per la vita serve a proteggerli. Perché li difende dalla tristezza, dalla pena, ma soprattutto, dalla resa.
