La raffineria di Gela, la Caffaro di Brescia e Torviscosa, il porto di Trieste, il polo siderurgico di Piombino, le aree Ilva ed Eternit dismesse a Bagnoli, le lagune di Venezia e Orbetello. I Sin, siti di interesse nazionale, sono attualmente 42, da Nord a Sud, tutti luoghi inquinati da bonificare. Ci vivono sei milioni di persone, coprono una superficie di circa 170mila ettari a terra e 78mila in mare (il sei per mille dell’intera superficie nazionale), sono in molti casi aree produttive o già produttive del Paese.
Dalla Terra dei Fuochi a Casale Monferrato, da Terni a Taranto: il problema che accomuna queste zone è la mancata fine del percorso, complesso dal punto di vista tecnico, giuridico e in alcuni casi giudiziario, di smaltimento del materiale inquinante. Le bonifiche sono al palo. E non è un mero problema di risorse economiche. Solo negli ultimi tempi per la Terra dei Fuochi il governo italiano ha stanziato ulteriori 200 milioni di euro per le operazioni di bonifica nel triennio 2025-2027, altri 80 milioni sono stati aggiunti per il 2027 per gli interventi di ripristino e bonifica ambientale dell’area di Taranto. Per i cosiddetti siti orfani, quelli cioè in cui le responsabilità non sono attribuibili ad aziende, o i privati se ne lavano in qualche modo le mani, spetta alla pubblica amministrazione aprire il portafoglio. Una situazione eterogenea, con alcuni territori che hanno una storia ormai decennale, processi in corso, conflitti, commissariamenti, inchieste giudiziarie e sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Su un sito dedicato, curato dal ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, è possibile monitorare lo stato di avanzamento dei lavori di bonifica. La maggioranza dei siti sarebbe contaminata o potenzialmente contaminata. Il primo step è la “caratterizzazione”, le attività che permettono di ricostruire i fenomeni di contaminazione, una sorta di diagnosi del sito. Quasi in tutti i siti è stata già fatta, ma il processo per arrivare alla bonifica è lungo.
Il Sulcis, ad esempio, è stato inserito tra i Sin nel 2001, perimetrato nel 2003, con uno stanziamento del dicastero dell’Ambiente di oltre 68 milioni di euro: le aree contaminate, a oggi, sono 2.868 ettari, la parte bonificata 128 ettari. L’iter di Porto Marghera è iniziato nel 1998, dopo ventisette anni è stato bonificato il 21 per cento della superficie totale a terra. Ancora, il Sin di Orbetello – Area ex Sitoco, con tutta la sua laguna, esiste dal 2002: su 204 ettari, c’è un progetto di bonifica approvato per 41 ettari. A Livorno, lo stesso rapporto è di 206 a 11 ettari, come terreni e come falda. Per accendere i riflettori sulle mancate bonifiche Legambiente, Acli, Agesci, Arci, Azione Cattolica Italiana e Libera, hanno promosso la campagna itinerante “Ecogiustizia subito”, che ha fatto tappa in sei territori inquinati: Casale Monferrato, Taranto, Marghera in Veneto, Augura-Priolo-Melilli in provincia di Siracusa, Brescia, Napoli e Terra dei Fuochi.
«Là dove ci sono ancora produzioni in corso – spiega Mariateresa Imparato, presidente di Legambiente Campania e responsabile per la campagna per la giustizia climatica – prevale l’interesse dei privati; dove non ci sono e c’è il deserto dal punto di vista economico, evidentemente non è tra le priorità della politica ristabilire una situazione normale. Le bonifiche e i progetti di sviluppo rappresentano l’unico riscatto per queste zone, per tenere insieme salute e lavoro. Non è una battaglia degli ambientalisti, è di tutti».

I rischi per la salute
Amianto, discariche, impianti dismessi sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano questi luoghi e hanno conseguenze estreme sulla salute degli abitanti. Per monitorarle, dal 2006 è stato attivato “Sentieri”, Sistema nazionale di sorveglianza epidemiologica permanente delle comunità che risiedono in prossimità delle principali aree inquinate sul territorio italiano. Tra il 2013 e il 2017, nei 46 siti analizzati si è stimato un rischio di mortalità maggiore del 2 per cento, pari a circa 1.668 decessi l’anno. Nel rapporto precedente, relativo agli anni tra il 2006 e il 2013, era del 2,7 per cento. Le morti sono causate principalmente da tumori maligni: la mortalità per mesoteliomi totali risulta in eccesso di tre volte nei siti con presenza di amianto e quella per mesoteliomi pleurici di più di due volte nell’insieme dei siti con amianto e aree portuali. Ancora, «il tumore del polmone è in eccesso del 6 per cento tra i maschi e del 7 per cento tra le femmine nei siti con fonti di esposizione ambientale a esso associabili – si legge sull’ultimo rapporto dell’osservatorio – Sono in eccesso la mortalità per tumore del colon retto nei siti caratterizzati dalla presenza di impianti chimici, del 4 per cento tra i maschi e del 3 per cento tra le femmine, e del 6 per cento per il tumore della vescica negli uomini residenti nei siti con discariche».
Anche il rischio di ospedalizzazione aumenta, in questi luoghi, del 3 per cento sia per gli uomini che per le donne. Altri studi locali sui singoli siti poi confermano i dati, in particolare nei territori in cui gli impianti produttivi sono ancora attivi. Fabrizio Bianchi, epidemiologo ambientale, Cnr Pisa, spiega: «Ci sono due grandi studi pubblici in corso, uno in Puglia e uno in Veneto, da 25 milioni di euro l’uno, nei quali si vanno ad approfondire i dati sanitari. Da anni chiediamo studi su microaree geografiche, per superare alcuni limiti degli studi precedenti. I rapporti hanno sempre confermato più o meno l’esistenza in molti di questi siti di eccessi di rischio ascrivibili almeno in parte all’esposizione a inquinanti. La pressione sull’ambiente e quindi sulla salute, purtroppo, continua. Popolazioni che nascono e vivono in questi territori, esposte in modo cronico all’inquinamento, sono fragilizzate, cioè più suscettibili e vulnerabili dal punto di vista della salute, anche in casi di pandemie, come è accaduto con il Covid».
Cosa fare intanto? «Migliorare gli screening, prevenire, migliorare la partecipazione dei cittadini. Ma di certo occorre rilanciare le bonifiche, che avrebbero benefici anche economici, perché ci sarebbero meno malattie, meno decessi», conclude Bianchi. E più occupazione nella bonifica stessa: secondo una stima del 2016 di Confindustria, un investimento di 10 miliardi di euro nelle bonifiche dei Sin porterebbe 200mila nuovi posti di lavoro. Lo Stato rientrerebbe di circa 4,7 miliardi di euro attraverso maggiori entrate fiscali e contributi sociali. A dicembre 2024 è stata la Corte dei Conti a lanciare l’allarme, confermando i ritardi nel processo di bonifica.
«Stiamo andando a rilento – conferma Marco Caldiroli, presidente di Medicina democratica – In quasi tutti i siti il livello dell’intervento realizzato a oggi è ridotto. Stiamo parlando di operazioni difficili, perché anche conoscere la zona e valutare il tipo di soluzione è complicato. Le norme ci sono, anche se sono state sempre più annacquate. Abbiamo questa zavorra del passato di cui dobbiamo liberarci e occorre evitare in futuro altre attività che tra trent’anni possano determinare situazioni di rischio». Come dicono le associazioni, «in nome del popolo inquinato».