C'era una volta un eroe in viaggio attraverso regni invisibili alla ricerca di un uccello mitico, i cui mille canti avrebbero risvegliato i popoli portando armonia nel mondo. La favola Hazaran Bulbul affonda le radici nell’antica Armenia ma parla anche del nostro tempo difficile, di guerra e ricerca di pace interiore. Trae spunto dalla tradizione “The bird of a thousand voices”, il nuovo album di Tigran Hamasyan, compositore, pianista 38enne, già enfant prodige cresciuto tra Armenia e California, oggi uno dei musicisti più acclamati della scena internazionale. Hamasyan porta in Italia il suo progetto per un unico concerto, al festival Vicenza Jazz (23 maggio) in trio con Mark Karapetian al basso elettrico e Arman Mnatsakanyan alla batteria.
Dopo un esordio folgorante, nove anni fa il pianista e compositore si fece notare per l’album doppio “Atmosphères”, piccolo capolavoro inciso per ECM in quartetto con i fuoriclasse norvegesi Arve Henriksen, Eivind Aarset, Jan Bang, sublime intreccio tra antichi canti tradizionali armeni e sonorità contemporanee. Lodato dai giganti del jazz, adesso il compositore guarda il mondo dalla sua Erevan.
Tigran Hamasyan, oggi il pianeta è attraversato da guerre e violenze. Dove si nasconde l’uccello della favola armena?
«Il mondo è dentro di noi, ognuno deve intraprendere il proprio viaggio spirituale. Tutti possono inseguire quell’uccello, ascoltarne il canto e raggiungere l’armonia».
Quando ha scoperto questa favola?
«In Armenia è molto popolare. Il titolo lo conosco da sempre, ma l’ho letta per la prima volta solo sei anni fa. Sono cresciuto con altri racconti epici come “David di Sassoon”, un’epopea divisa in quattro parti. Hanno molti punti in comune: il viaggio dell’eroe, la lotta per la libertà, il sacrificio per le persone più deboli. E ancora, l’idea della morte e della resurrezione».
Cosa ricorda dell’infanzia?
«È tutto molto vivido: a Gyumri, la città in cui sono cresciuto, nel giro di pochi anni ci fu un disastroso terremoto, il crollo dell’Unione Sovietica e la guerra con l’Azerbaigian. Non c’era elettricità, poi per una o due ore al giorno. Ciò nonostante la mia infanzia non è stata buia, ma fantastica. Ricordo il pianoforte, la nostra bellissima casa, il nostro giardino e mia madre che mi leggeva le sue storie».
Il suo primo album da solista si intitola “A fable” (2011). Perché le favole la affascinano?
«Esiste una conoscenza nascosta che ci è stata tramandata. Racconti e favole pensati per guidarci nei momenti difficili. Uno scienziato russo ha scoperto che il cervello umano ha fatto un grande balzo in avanti quando è stato scoperto il primo strumento. Gli esseri umani sono creativi, questo ci distingue dagli animali. Oggi le favole antiche sono fondamentali in un mondo dominato dalla tecnologia, le nostre vite hanno bisogno di creatività».
Si è formato ascoltando anche Led Zeppelin, Deep Purple, Queen. Da bambino cos’era per lei la musica?
«Mio padre era un grande appassionato di rock, mio zio adorava jazz e funk. Presto i miei genitori compresero il mio amore per la musica e l’improvvisazione. Mi mandarono a scuola, dove mi sono cimentato con il repertorio classico. Il mio approccio, però, era da compositore più che da esecutore. Chiedevo alla mia insegnante di suonare qualcosa, lei eseguiva una sonata di Beethoven o Mozart, oppure preludi e fughe di Bach. Quando ascoltavo qualcosa di interessante la esortavo: “Voglio impararlo”. La musica classica mi ha dato tantissimo».
Uno dei suoi progetti più interessanti ruota intorno alla musica sacra della Chiesa apostolica armena. Nostalgia, spiritualità, passione?
«La musica popolare armena coincide con la musica sacra armena, sono tutt’uno. La musica religiosa ha un’energia incredibile, si possono dire tante cose con le parole ma quando si parla di Dio attraverso la musica l’impatto è molto più forte. Lo scopo dell’arte è elevare spiritualmente chi ascolta, dovremmo farlo ogni volta che suoniamo».
Lei crede in Dio?
«Sì, certo. Sono stato battezzato nella Chiesa apostolica armena. Ma non vado in chiesa tutti i giorni o tutte le domeniche».
Lei ha raggiunto il successo da giovanissimo, lodato da tre mostri sacri del pianoforte jazz: Herbie Hancock, Chick Corea, Brad Meldhau. Cosa le hanno insegnato?
«Ho ascoltato la prima volta Herbie Hancock in “My funny Valentine”, nell’esecuzione dal vivo con Miles Davis e la New York Philharmonic. Mi ha cambiato la vita perché non ne avevo mai sentito parlare. Adoravo il bebop, ma quando ho sentito quel concerto ho vissuto una svolta. È una musica che nasce da un pensiero sinfonico, epico, con uno sviluppo lento e grandi climax. Per lo stesso motivo mi piacciono i Led Zeppelin, che amo paragonare al Quintetto di Miles Davis. Anche loro utilizzano questa struttura: iniziano senza batteria e poi all’improvviso, quando entra la batteria, il pezzo diventa epico. Poi di colpo la batteria cala. C’è una drammaturgia forte, è questo che amo nella musica».

E Chick Corea?
«Mi ha cambiato la vita il suo album “Now he sings, now he sobs”, registrato a fine anni Sessanta in trio con Miroslav Vitous e Roy Haynes. Un disco rivoluzionario per la conoscenza armonica e la gestione del ritmo. Chick è stato un pioniere e un grande narratore, come del resto Brad (Meldhau, ndr). Il suo album che preferisco è “Art of the Trio - volume 5” (2001), un doppio in cui si ispira a Keith Jarrett e ai grandi pianisti che lo hanno preceduto. Anche Brad è un poeta».
L’Armenia è una terra martoriata da guerre e persecuzioni. Il genocidio armeno da parte della Turchia, oltre un milione e mezzo di morti, si commemora il 24 aprile. In quel giorno lei terrà un concerto a Berlino. È ancora una ferita profonda?
«Abbiamo subito un trauma profondo ancora impresso nella società armena. È davvero complicato andare oltre. Quella armena è una storia difficile: per 90 anni, ad esempio, abbiamo fatto parte dell’Unione Sovietica. Dunque il problema non è solo il genocidio, ma il fatto che non venga riconosciuto dalla Turchia, che lo ha commesso, è molto grave. Un conto è la politica però, un altro il popolo. L’altro giorno mi trovavo per un concerto a Boston, dove abitano molti armeni emigrati. Io e il mio tastierista abbiamo preso un Uber, un ragazzo turco molto gentile. “Mia nonna è armena, non so di dove”, ha detto. Abbiamo parlato di tutto: non ho alcun problema con le persone. Se Ankara riconoscesse il genocidio sarebbe un grande sollievo».
Le è capitato di suonare in Turchia?
«Certo, soprattutto a Istanbul. L’altro giorno ho visto sul mio Spotify che la Turchia è al secondo posto nella classifica dei Paesi in cui mi ascoltano di più».
Perché ha deciso di tornare in Armenia dopo aver trascorso alcuni anni negli Stati Uniti?
«Per diversi motivi, uno in particolare: volevo che i miei figli, due maschi e una femmina, crescessero qui. Da grandi potranno decidere se andare in America a vivere o a studiare».
Chissà se Donald Trump sarà d’accordo.
«(ride) È troppo tardi, sono tutti e tre americani».