La speranza dei giovani turchi non si arresta

La protesta in Turchia continua nonostante la repressione della polizia. Ad animarla sono i ragazzi che hanno vissuto sempre sotto Erdoğan. E che ora vogliono cacciarlo

Dal cortile della Moschea di Sehzade, adiacente a piazza Sarachane, si sovrappongono due suoni contrastanti: da un lato, le voci roche dei politici che arringano la folla dal municipio; dall’altro, l’eco dei lacrimogeni e dei proiettili di gomma sparati dalla polizia contro i manifestanti, alcuni dei quali cercano rifugio qui dal gas irritante. Centinaia di agenti in tenuta antisommossa bloccano la strada che da Sarachane conduce a Taksim, la piazza nel cuore di Istanbul che fu il simbolo delle storiche proteste di Gezi Park. Era da allora che in Turchia non si vedevano proteste popolari di questo calibro. L’appello del principale partito d’opposizione, il Partito Popolare Repubblicano (Chp), alla mobilitazione dopo l’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, si è trasformato in un movimento di massa che va oltre la sua base kemalista, coinvolgendo partiti di sinistra, ultra-nazionalisti, veterani di Gezi e anche chi non aveva mai preso parte a una protesta. A unirli è l’opposizione al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e alla sua deriva sempre più autoritaria, che ritengono ormai irreversibile.

 

«Non nutro grandi speranze di cambiamento nell’immediato, ma se non combatto ora, le cose resteranno le stesse per i miei figli o nipoti», dice Dila, una studentessa di 21 anni che ha preferito non usare il suo vero nome per timore di ripercussioni. Centinaia dei suoi coetanei scesi in piazza sono stati arrestati. La sua generazione, che non ha conosciuto altro che il governo di Erdogan, sta giocando un ruolo chiave nella mobilitazione. Oltre 1.800 persone, tra cui molti ventenni, sono state arrestate per le proteste, di cui 260 sono in custodia cautelare. Tra i fermati ci sono anche giornalisti: dieci di loro sono stati prelevati all’alba con blitz nelle loro abitazioni, accusati di aver partecipato a manifestazioni non autorizzate e di aver ignorato gli ordini di dispersione della polizia. Nel giro di pochi giorni, l’ondata di proteste si è diffusa rapidamente in almeno 55 delle 81 province turche, nonostante il divieto di manifestare.

 

«Per noi, questa non è solo una manifestazione, è resistenza», dice un 24enne di Eskisehir, il volto coperto e una sciarpa della squadra di calcio del Besiktas al collo. «Non sosteniamo Özgür Özel, ma andremo avanti finché non ci sarà giustizia in questo paese», dice riferendosi al leader del Chp, che pochi giorni prima aveva espresso dal palco di Sarachane la sua solidarietà sia a Selahattin Demirtaş, leader curdo in carcere dal 2016, che a Ümit Özdağ, leader del partito di estrema destra Zafer (Vittoria), arrestato a inizio anno.

 

Pur essendo in custodia cautelare, İmamoğlu è stato ufficialmente confermato candidato del Chp per le presidenziali turche che dovrebbero tenersi nel 2028. La nomina è arrivata il 23 marzo, dopo un voto principalmente simbolico nelle primarie del partito, dove era stato l’unico candidato in corsa. Il giorno prima, era stato formalmente arrestato e sospeso dalla carica di sindaco con accuse di “costituzione e gestione di un’organizzazione criminale, corruzione, estorsione, registrazione illecita di dati personali e manipolazione di un appalto”. Un giorno prima del suo arresto, l’Università di Istanbul aveva annunciato la revoca della laurea di İmamoğlu: una mossa che potrebbe mettere a rischio la sua candidatura presidenziale, poiché la Costituzione turca impone che i candidati abbiano completato l’istruzione superiore. L’arresto, invece, non lo esclude automaticamente dalla corsa e solo una condanna definitiva porterebbe alla sua “squalifica”.

 

Nel frattempo, il governo non sta mettendo in discussione la leadership del partito di İmamoğlu sulla città di Istanbul. Il nuovo sindaco, infatti, è stato scelto all’interno dello stesso Chp, che nelle ultime elezioni amministrative aveva conquistato i principali centri della Turchia. «Questa è l’ultima mossa di Erdogan» afferma Arda Ceyhan, 37 anni, professionista nel settore finanziario e veterano di Gezi Park. «Sa che sta perdendo potere e voti. E per questo motivo sta diventando più duro e aggressivo. Quindi penso che la sua fine sia vicina. Per noi, è solo l’inizio».

 

Dalla folla di Sarachane risuona il grido «diritto, legge, giustizia», uno degli slogan della piazza. Non manca, nonostante tutto, l’ironia, soprattutto nei cartelli: uno di questi recita «anche Edison si è pentito», un riferimento sottile alla lampadina, simbolo dell’Akp di Erdogan. Gli studenti universitari si sono organizzati in comitati e hanno avviato campagne di boicottaggio accademico, non esitando a criticare sia il partito di governo che l’opposizione. Erdogan ha definito le proteste «malvagie» e respinto con fermezza l’accusa che l’arresto di İmamoğlu sia politicamente motivato. Dopo oltre una settimana di proteste a Sarachane, il Chp sabato scorso ha mobilitato centinaia di migliaia di persone per una manifestazione nella periferia di Istanbul, esortando i sostenitori a proseguire la contestazione con il boicottaggio di aziende vicine al governo e chiedendo elezioni anticipate.

 

Per le strade, i manifestanti sono convinti che le proteste esplose dopo l’arresto del sindaco continueranno, magari assumendo forme diverse, nelle settimane a venire. Per alcuni di loro, la posta in gioco è il futuro. «Vista la situazione attuale, rimanere in Turchia dopo gli studi non sarebbe la mia prima scelta», dice Dila, la giovane studentessa. «Rimarrei solo se non avessi altra opzione».

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