Nel giorno del debutto a Roma del kolossal pop "Romeo&Giulietta", il manager musicale si racconta. Dall'amicizia con Dylan agli screzi con Baglioni e Cocciante. E respinge al mittente l'accusa di essere troppo nazional popolare: "L’atto più politico è dare lavoro. I miei show ma danno uno stipendio a tanti giovani"

L’ultima follìa, così la definisce David Zard si chiama “Romeo & Giulietta. Ama e cambia il mondo”. Un altro kolossal alla “Notre Dame de Paris”, l’evento che ha segnato la sua resurrezione da famoso rock promoter a produttore di opere pop ad alto tasso spettacolare.

Scenografie fantasmagoriche, decine di cambi di scena, centinaia di costumi, un esercito di cantanti e ballerini. Nonostante la crisi insomma, l’impresario che lanciato in Italia il musical come evoluzione hi-tech del melodramma continua a muoversi in direzione ostinata e contraria.

Zard, di famiglia ebrea fuggita dalla Libia nel 1967, non ha mai avuto paura di esagerare. Ha portato in Italia le rockstar più famose, dai Rolling Stones a Bob Dylan, da Michael Jackson a Madonna. Nella sua carriera ha conosciuto successi trionfali e débâcle che avrebbero steso chiunque. Poi ci si è messa anche la salute a remare contro: un trapianto di fegato nel 2006, problemi al cuore. Ma si è sempre rialzato. E a pochi giorni dal debutto del nuovo show trasmesso in diretta su RaiDue dall’Arena di Verona la settimana scorsa, lo abbiamo incontrato. Spalle larghe da lottatore, occhi azzurri, la bella faccia da attore hollywoodiano che i suoi 70 anni non hanno spiegazzato. Ma in ufficio neppure una foto delle popstar che l’hanno reso famoso. Fedele al suo motto: "La vera star è il pubblico".

[[ge:rep-locali:espresso:285110229]]Mai avuto il sospetto di essere un po’ megalomane?
"Sostengo da sempre che questo non è un difetto ma un pregio. Vuol dire rispettare il prossimo e guardare avanti. Il nostro nonostante i suoi problemi resta un grande paese e non merita le cianfrusaglie che si vedono in giro, ma prodotti di qualità".

Qualità non vuol dire necessariamente dimensioni extra large.
"Il pubblico a casa ormai è abituato a guardare la tv su schermi al plasma da 70 pollici. Per competere ci vogliono produzioni in grado coinvolgere le masse e strutture capaci di accoglierle. Dieci anni fa per “Notre Dame” ho costruito il Gran Teatro, un tendone lussuoso con tremila posti e un palco grande abbastanza per ospitare mega produzioni. E a Milano, per la trasferta di “Romeo & Giulietta” ne stanno costruendo un altro. Purtroppo queste tensostrutture hanno spese enormi. Solo di riscaldamento, 1.500 euro l’ora. Difficile in queste condizioni, fare prezzi popolari".

Responsabilità della politica?
"Non ho mai capito perché le amministrazioni locali quando danno le licenze per i centri commerciali, non obblighino le imprese a dotarli anche di un teatro da 1.500, 2000 posti. Basta un parallelepipedo, un bel palco, una graticcia attrezzata. Con pochi milioni di euro si possono riqualificare le cattedrali del consumismo in centri di cultura".

“Notre Dame”, poi “Tosca” con Lucio Dalla, “Pia De’ Tolomei” con Gianna Nannini, “Dracula” con la Pfm e adesso “Romeo & Giulietta” con la regia di Giuliano Peparini, che viene dal Cinque du Soleil. Proposte di grande presa nazional popolare, certo non teatro impegnato.
"Sostengo da sempre che l’atto più politico è dare lavoro. I miei show esaltano il sogno e la fantasia, ma danno anche uno stipendio a tanti giovani e la possibilità di esprimersi come artisti".

Finanziamenti?
"Mai avuto una lira di denaro pubblico!

Anche questa volta?
"Per farmi questo regalone ho venduto la casa in Israele. Mio figlio Clemente, 23 anni, ama questo mestiere e lo sa fare meglio di me. Questa produzione è in gran parte opera sua. Gli anni passano, è giusto prepararsi al passaggio di testimone".

Il progetto di un musical tratto dal dramma shakespeariano era iniziato con Cocciante, poi ha preferito riadattare il “Romeo & Giulietta” del francese Gérard Presgurvic. Com è andata in realtà?
"La moglie di Cocciante voleva fare la produttrice e aveva preso in mano le redini di tutto. Quando ho osato dire che la musica composta da Riccardo in stile madrigalistico non mi entusiasmava, il rapporto si è interrotto bruscamente".

La più grande batosta da imprenditore rock?".
"Il Santa Monica rock festival del 1974, una grande idea andata in fumo. Ero stato tentato celebrare il 40esimo anniversario il prossimo anno, poi mi sono detto, chi te lo fa fare?".

All’epoca si fantasticava di una Woodstock italiana.
"Ancora più in grande: quattro giorni di pace amore e musica, invece di tre. Mi avevano detto sì artisti come Rod Steward, Ten Years After, Deep Purple, Lou Reed e tanti altri. Manifesti già stampati, 55 mila biglietti venduti in anticipo, cosa impensabile in quegli anni. Previste 500 mila persone, camping, aree attrezzate. Meraviglioso!".

E poi?
"La settimana prima c’era stata la strage di piazza della Loggia, a Brescia. Non mi fecero montare nemmeno il palco. Persi 400 milioni di lire, oggi circa 12 milioni di euro".

Con Elton John, invece riuscì a salvare la faccia e anche il portafoglio.
"Era il 1972. Avevamo già schedulato il tour, ma lui lo aveva annullato all’ultimo momento spedendomi certificato medico, tonsillite. Invece aveva da poco ultimato l’album “Honky Chateau” in Francia e voleva tornarsene a casa. Come promoter avrei perso la faccia. Mi precipitai a Londra richiedendo una visita fiscale. Lui rifiutò di fare entrare il medico legale. Così il giudice mi dette ragione e accolse tutte le mie richieste: sei concerti e l’impegno da parte dell’artista a venire in Italia due settimane prima a fare promozione. Fu un successo strepitoso".

Il suo amico Bill Graham, leggendario promoter dei Greateful Dead e della contro cultura rock anni Settanta cosa le ha insegnato?
"Bill era entrato nel rock business per rendere felice la gente e non ha mai smesso di credere, come del resto anch’io, che nell’incontro tra il pubblico e l’artista c’è un momento magico in cui la musica diventa un veicolo capace di trasportare tutti a un livello superiore di consapevolezza".

Un ricordo personale?
"Durante il tour dei Rolling Stones dell’82 mi aveva regalato una maglietta con scritto “I’m the Bill Graham of Italy”, lui ne indossava un’altra: “I’m the David Zard of San Francisco”. Senza il suo appoggio, all’epoca, non sarei riuscito a convincere tante rockstar a venire in Italia. Quando morì, nel 1991, sono rimasto sotto shock per mesi".

Sesso, droga e rock’n’roll. Leggenda da sfatare?
"Droga ed eccessi fanno parte di quello stile di vita che gli Stones hanno incarnato al meglio. Ma per i tecnici, dopo lo spettacolo, organizzano catering con aragoste e champagne. Gli alberghi sarebbero disposti a ospitarli gratis! Spendono al bar cifre da capogiro. E saldano i conti fino all’ultimo centesimo".

Bob Dylan è davvero scorbutico come si dice?
"Al contrario è un timido all’ultimo stadio. Pieno di paure e fobie. Ma non è scontroso. Una volta venne in Italia durante la festività ebraica dello Yom Kippùr. Non so come riuscì a sapere che andavo a pregare in una piccola sinagoga in Trastevere. Qualcuno mi venne a chiamare, signor Zard c’è una persona strana che chiede di lei. Era Dylan in persona. Poi venne a casa mia a “sdigiunare”, adorava il cous cous di mia madre. E dopo cena andammo al concerto".

È vero che aiutò Peter Gabriel agli inizi della carriera?
"Mi piace ricordare che sono stato il primo a portare in Italia i Genesis. Ero andato a Londra per i Van Der Graaf Generator. Ma poi vidi questo gruppo ancora alle prime armi e me ne innamorai. La prima sera facemmo il pienone. Dopo lo spettacolo notai Peter Gabriel che parlava con il manager, Tony Smith. Aveva difficoltà a pagare il mutuo. Firmai un assegno per saldare la rata. Siamo tutt’ora molto amici".

E Michael Jackson?
"Quando venne nel 1992 con il “Dangerous Tour”, mi disse che avrebbe tanto desiderato visitare Roma. Riuscimmo a dribblare il controllo della security, lo feci vestire normalmente e il pomeriggio lo portai a piazza del Popolo. La proprietaria di un negozio di antiquariato lo riconobbe, balbettò “M… m.. m.. Michael!” poi cadde a terra svenuta. Lui mi disse poi che era stata una delle più belle giornate della sua vita. Era felice come un bambino. Anche per questo non ho mai creduto alle storie orribili che circolano sul suo conto".

Gli artisti italiani?
"Salvo poche eccezioni, viziati e privi di autoironia. Angelo Branduardi è fra questi. Un musicista originale, carismatico, adorato anche in Francia e in Germania. C’ho creduto molto. Poi un giorno mi disse: “Sono il più grande artista del mondo”. Era arrivato al capolinea".

Anche con Baglioni non è finita bene.
"Disse che gli avevo fregato i soldi, ma conti alla mano gli dimostrai che si era sbagliato. Era venuto a bussare alla mia porta nel ’90. Il suo album, “Oltre”, non vendeva".

La diretta Rai dallo Stadio Flaminio è stata una sua idea?
"Tutti mi diedero del pazzo. Ma fu la mossa vincente. Andai a proporla a Fuscagni. Baglioni è cotto, niente da fare, rispose. Sparai, bluffando, che la prima data era “sold out” e stavamo organizzando un secondo concerto. Se lo annunci ti do la diretta. E così fu. Bloccai la vendita del primo a 26mila biglietti fingendo il tutto esaurito. E al secondo concerto arrivarono in 40 mila".

La stessa tecnica usata per Romeo & Giulietta?
"La tv è promozione. Se lo spettacolo è bello, viene voglia di andarlo a vedere anche a teatro".

Diavolo di un Zard! Chissà che non abbia fatto centro anche questa volta. E del resto cosa aspettarsi da uno a vent’anni a Tripoli aveva ideato lo slogan "Il meglio esiste e noi lo pubblicizziamo”? Al pubblico la sentenza. Dal 17 ottobre, al Gran Teatro.

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