Il 6 novembre sono in palio la Camera, un terzo del Senato e la guida di 36 Stati. Un referendum su The Donald. E il candidato democratico in Texas è il volto simbolo 

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La mission impossible di Beto prende il via agli inizi di una calda primavera texana, circa un anno e mezzo fa. Nessuno lo aveva preso sul serio in quel giorno di marzo: chi credeva di essere, come poteva pensare seriamente di sfidare uno dei più potenti e noti senatori del Grand Old Party? Robert Francis O’Rourke, 46 anni, solide radici irlandesi (il padre Pat giudice di contea, la madre Melissa nipote acquisita di un ministro di Jfk) non si era scoraggiato, quelle reazioni le aveva date per scontate. «Sono pronto a sfidare Ted Cruz», aveva ripetuto agli amici e a qualche incredulo compagno di partito. Chi lo conosce bene aveva capito subito che non scherzava affatto, che quel ragazzone ormai cresciuto - un passato da punk-rocker, una laurea alla Columbia University e un lavoro nel mondo digitale prima della passione politica scoperta a 33 anni - era deciso a tentare la sfida più difficile: battersi, lui democratico, nell’arena politica del Texas repubblicano per contendere quel seggio di senatore che il suo partito non vince da trent’anni.

Gli ultimi sondaggi lo danno ancora indietro, forse troppo per sperare di sconfiggere un politico navigato come Ted Cruz che nel 2016 fu l’unico avversario degno di nota per Donald Trump prima di diventare un ultrà trumpista. Lo danno indietro, ma i sondaggi possono sbagliarsi (su The Donald l’abbaglio fu clamoroso) e queste elezioni - con cui si rinnova l’intera Camera, un terzo del Senato e ben 36 governatori dei singoli Stati - a poco più di due settimane dal voto del 6 novembre hanno come certezza una totale incertezza.

È stata una campagna elettorale atipica, dove le questioni locali hanno lasciato spazio ai temi nazionali (la nomina di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema), all’economia (la “guerra dei dazi”) a impreviste crisi internazionali (il caso Arabia Saudita - Khashoggi), è stata la campagna elettorale che ha visto protagonista assoluto Donald Trump. Mai un presidente era stato così al centro dell’attenzione nelle elezioni di “medio termine”, che si stanno trasformando in un vero e proprio referendum a favore o contro la Casa Bianca.
È stata una campagna elettorale divisiva come mai, che ha estremizzato il confronto dando spazio alle ali più radicali e meno disposte ai compromessi. È stata la campagna delle donne, soprattutto delle donne democratiche schierate su posizioni liberal (quando non dichiaratamente socialiste) che potrebbero entrare in gran numero in Congresso e rivoluzionare con la loro presenza la vita politica di Capitol Hill, finora dominata da un mondo maschile. È stata una campagna che ha visto entrare sul palcoscenico nazionale volti nuovi e tra questi uno dei più popolari è proprio lui, Beto.

Quel nomignolo se lo porta appresso dalle elementari, da quella El Paso dove è nato e cresciuto, dove lo spagnolo è più che una seconda lingua e il diminutivo ispanico di Roberto non lo abbandonerà mai più. El Paso, città di confine e di storie tragiche (Ciudad Suarez, sull’altra sponda del “border” tra Usa e Messico, solo dieci minuti a piedi, è la patria del femminicidio) e nessun politico nato da quelle parti che sia mai riuscito a diventare senatore degli Stati Uniti. Beto al Congresso già è seduto come deputato, ci sta dal 2012, l’anno in cui a sorpresa nelle primarie si fece un boccone del boss democratico locale Silvestre Reyes (che era stato eletto e rieletto per otto volte di fila) per poi trionfare contro la repubblicana Barbara Carrasco.

Facile, dicevano i suoi detrattori, vincere un seggio come quello di El Paso, da sempre democratico; facile trionfare in casa. Per un anno nessuno lo ha preso troppo sul serio, il portavoce del Grand Old Party commentò la sua candidatura con un’alzata di spalle e un «chi?» di scherno, l’altro senatore repubblicano del Texas John Cornyn, che non ama Ted Cruz e stima Beto per il suo lavoro bipartisan al Congresso, non gli ha dato chance: «Se pensa di battere Cruz commette un errore».

Di errori Beto ne ha commessi, soprattutto nella sua vita passata. Da piccolo, vivace e irrequieto, faceva preoccupare non poco mamma Melissa e papà Pat (un giudice di contea che resterà ucciso in un incidente stradale nel 2001), da adolescente trova la sua strada nel mondo ribelle della musica punk. Bassista della band “Foss”, un singolo di locale successo (The El Paso Pussycats), un paio di tour tra Stati Uniti e Canada, qualche piccolo problema con la legge. Punk, skater e poi studente (quasi) modello alla Columbia University. La seconda vita Beto la passa a New York tra canottaggio a buon livello (è il capitano dell’otto universitario), studi letterari e uno spagnolo sempre più fluente. Nella Grande Mela lavora in un internet provider, business che gli serve a fondare una sua piccola società quando decide di tornare ad El Paso. Ed è nella sua città natale che scopre la passione per la politica: prima come consigliere comunale per sei anni, poi il grande passo al Congresso.

Da consumato punk-rocker Beto ama le sfide difficili. Così un anno fa (tanto per smentire chi lo accusava di vincere in casa) non è andato a cercare facili consensi nelle roccaforti democratiche del Texas meridionale, come Austin (la capitale dello Stato con la stella solitaria). Ha iniziato la sua campagna da una cittadina come College Station, 90 mila abitanti e un elettorato tra i più reazionari del Texas, luogo che i candidati democratici hanno sempre evitato come la peste. Lì, nel primo evento convocato da Rosa Mexicano (ristorante della famosa catena TexMex) ha attirato una piccola folla di 120 persone: tutti dichiaratamente repubblicani ma in cerca di un candidato che “facesse funzionare meglio” l’odiato governo federale. Gente a cui poco importa se alla Casa Bianca c’è The Donald (di cui sono quasi tutti fan); Ted Cruz li ha delusi e Beto, texano come loro (Cruz è nato in Canada) vale la pena di essere ascoltato. È dai tavoli di Rosa Mexicano e dalla successiva tappa a Midland (altra roccaforte ultra repubblicana), dove in cento si sono ritrovati a bere e a discutere con lui al Grub Burger Bar, che è iniziata la favola elettorale di Beto e della sua missione impossibile.

Quel giorno il Midland Reporter Telegram scrisse un editoriale insolitamente positivo per un avversario politico: «prima di tutto congratuliamoci con il deputato O’Rourke per essere riuscito a trovare Midland, cosa impossibile per i suoi compagni di partito». In un anno di strada ne ha fatta molta, ha battuto miglio dopo miglio praticamente tutto il Texas (conta di finire, come aveva promesso, tutte e 254 le contee), partito con un distacco di oltre 30 punti ha risalito la china mese dopo mese, fino a diventare una minaccia reale per il potente Cruz. Che dapprima lo ha ignorato, poi lo ha schernito («pensavo i democratici scegliessero un candidato vero»), man mano ha iniziato a temerlo e infine è passato ad attaccarlo con mezzi più o meno leciti: come la fake news (che si è rivelata un boomerang) con cui lo accusava di voler cancellare i barbecue («se vince lui li proibirà in tutto il Texas»).

Un’ascesa che ha iniziato a fare paura al Grand Old Party anche a livello nazionale. Se Ted Cruz dovesse perdere il suo seggio (finora ultra-sicuro) la maggioranza del Gop al Senato potrebbe essere a serio rischio. Ecco dunque per lui una pioggia di milioni arrivati in gran fretta dai grandi finanziatori, ecco (contro Beto) partire una campagna massiccia sui social network, in cui si mischiano vere e false notizie e si moltiplicano gli attacchi della destra conservatrice contro “il piccolo criminale punk, ubriaco e drogato” (in gioventù ha avuto un paio di arresti per droga e guida un po’ alcolica). Cui lui risponde colpo su colpo, conquistando nuovi fan tra l’elettorato giovanile. Negli ultimi tre mesi ha raccolto la bellezza di 38,1 milioni di dollari, una cifra record che in un solo trimestre nessuno aveva mai ottenuto. Fatto ancora più straordinario se si pensa che Beto ha rifiutato finanziamenti dai Pac (i comitati di azione politica che raccolgono i grandi fondi elettorali) e che i suoi 38,1 milioni di dollari sono frutto delle piccole donazioni di ben 802.836 contributi individuali.

È indietro nei sondaggi (tra gli otto e i nove punti) e la sua resta una “mission impossible”, ma comunque vada a finire, è ormai proiettato nell’olimpo democratico. Qualche mese fa uno stratega politico disse pubblicamente: «sembra un maledetto Kennedy», etichetta che gli è rimasta addosso. Il “physique du rôle” non gli manca, l’aspetto un po’ kennediano lo ha veramente, col presidente ucciso a Dallas condivide una bella oratoria e un passato da scavezzacollo. È considerato un ibrido tra “liberal” e moderati, un viaggio in auto con il collega repubblicano Will Hurd (ex agente Cia che ha lavorato sotto copertura in Afghanistan) gli ha dato notorietà bipartisan. Una tempesta di neve li aveva bloccati a Washington, così decisero di affittare una macchina per percorrere insieme i 2400 chilometri per tornare a casa; e attraverso un cellulare piazzato sul cruscotto hanno raccontato (seguitissimi sui social) le loro discussioni e i loro dubbi via streaming. La sua speranza è legata all’affluenza della comunità di latinos in mezzo ai quali è cresciuto. Corteggiarli, per lui che parla fluentemente spagnolo e che ha portato sua moglie Amy a Ciudad Juarez per il loro primo appuntamento, è stato un gioco da ragazzi. Sono quasi tutti dalla sua parte, ma che si rechino alle urne è un altro discorso.

Le urne di Mid Term hanno tradizionalmente una bassa affluenza e nelle ultime (2014) è stato battuto il record mondiale (negativo) per elezioni nei paesi democratici (con l’eccezione della piccola Andorra) dal 1945 ad oggi: 33 per cento degli aventi diritto. Il Congresso, compreso quel Senato decisivo per eleggere i giudici della Corte Suprema, rappresenta praticamente solo un terzo degli americani, pur essendo il principale “check and balance” della vita politica Usa, con grandi poteri legislativi e la possibilità di decidere i destini di un presidente. Bassa affluenza che ha diversi motivi, primo fra tutti il fatto che le elezioni si tengono per tradizione di martedì, quindi in un giorno lavorativo. A differenza delle presidenziali (con un affluenza decisamente più alta anche se non paragonabile agli standard europei), nel “medio termine” si sconta poi il crescente fastidio verso la politica e i politicanti di Washington, nell’America federalista diventata ormai da molti anni (a volte con ragione) il simbolo di tutto ciò che non funziona. Se a questo aggiungiamo che in diversi Stati - soprattutto in quelli dove governano i repubblicani - vengono messi rigidi paletti per poter accedere alle urne (ad esempio come prova di identità vale il porto d’armi ma non la “ID” da studente) che penalizzano le minoranze (afro-americani e latinos) e gli elettori meno convinti, il quadro diventa desolante.

Le possibili nuove incursioni di hacker russi sul voto del 6 novembre vengono usate per tenere gli elettori lontani dai seggi: in Georgia, in North Carolina e nel Texas della sfida O’Rourke-Cruz, sono in sospeso le richieste di voto di mezzo milione di elettori, per la maggior parte neri. Contro le speranze di Beto e del partito di Obama e Michelle (la coppia è tornata ad impegnarsi pubblicamente in chiave anti-Trump) c’è poi l’altra tradizione statistica: i democratici a Mid Term sono molto più assenti dei repubblicani.

Chi uscirà vincitore dalla battaglia per il nuovo Congresso nessuno è in grado di dirlo. I democratici sono in vantaggio alla Camera (con entusiasmo in aumento in tutti i gruppi demografici, il più significativo fra le donne, i giovani, i non bianchi), oggi in mano del Gop. I repubblicani possono perdere il Senato solo per una storica débâcle: a meno che in Texas non succeda qualcosa di impossibile.

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