Alcune cose sul mondo arabo le sappiamo tutti. Sappiamo tutti per esempio che l’Islam vieta di riprodurre la figura umana. Ma allora come si spiega che un principe della penisola araba – che come tale ricopre un ruolo che prevede l’obbedienza ai precetti religiosi – spenda 450 milioni di dollari per comprare un quadro che rappresenta Gesù? Quel Gesù che è anche per l’Islam un profeta importante, anche se meno importante di Maometto, e quindi ancora più protetto dal famoso divieto di rappresentazione?
Eppure abbiamo tutti presente le immagini dei Buddha di Bamiyam, in Afghanistan, le enormi figure scolpite nella roccia che sono state distrutte dai talebani nel 2001. E conosciamo bene il terribile “effetto farfalla” scatenato dalle vignette danesi su Maometto: nel 2005 a Copenhagen un giornale pubblica delle vignette satiriche, e nei mesi seguenti questo scatena violente manifestazioni in tutto il mondo islamico, dalla Palestina alla Somalia, dall’Afghanistan alla Nigeria, finché nel febbraio del 2006 un sacerdote italiano viene ucciso in Turchia.
Qualcuno ricorderà anche “Il mio nome è rosso”, il bellissimo giallo che lanciò la carriera di Orhan Pamuk, portandolo dalle vette delle classifiche di vendita di tutto il mondo al Premio Nobel per la Letteratura, nel 2006. È lo stesso anno delle manifestazioni contro le vignette, e non è un caso: la motivazione lega il premio alla crisi mondiale, visto che parla della capacità di Pamuk di trovare «nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture». Ed è solo il secondo autore musulmano a ricevere il premio, dopo l’egiziano Nagib Mafhouz.
La trama di “Il mio nome è rosso” riguarda proprio la proibizione della figura umana nella cultura islamica. Il libro è ambientato a Istanbul alla fine del Cinquecento, e parte dall’uccisione di un miniaturista per raccontare lo scontro tra la tradizione ottomana – che, appunto, vietava di riprodurre essere viventi – e l’ammirazione per i dipinti dei pittori del Rinascimento veneziano, così ricchi di personaggi. L’ammirazione porta il sultano a chiedere che in un manoscritto fosse realizzato un suo ritratto, e questo desiderio sacrilego scatena una reazione sanguinaria da parte di fanatici palesi e nascosti. Di più non dico, per non rovinare agli interessati la lettura o la rilettura del libro.
Ma se l’Islam vieta le figura umane, come mai non creano problemi le campagne pubblicitarie con fotomodelle, a meno che non siano troppo poco vestite rispetto al “comune senso del pudore” locale – come è successo a Gisele Bundchen qualche anno fa? E se il divieto riguarda soprattutto Allah e i profeti, come si spiega l’investimento record saudita per il “Salvator Mundi”?
Il quadro attribuito a Leonardo da Vinci – o a Boltraffio, che era comunque un grandissimo pittore - è stato venduto a un prezzo da record all’asta da Christie’s nel novembre scorso. Dopo pochi giorni di suspence, si è saputo che il misterioso acquirente era Bader bin Saud bin Mohammed Al Saud, uno stretto collaboratore di Salman bin Mohammed Al Saud, il principe ereditario e leader di fatto dell’Arabia Saudita che da qualche mese ha lanciato un percorso di riforme “filo-occidentali”, dalla revoca del divieto di guidare per le donne alla riapertura dei cinema.
Le prime reazioni allo spettacolare acquisto sono state piuttosto maligne: ah vedi, in pubblico le immagini sono vietate, ma se ti appendi un Leonardo in salotto non c’è problema. Come succede per le donne arabe che spesso fuori casa, volenti o nolenti, indossano il velo – hijab, niqab o burqa - ma poi sono grandi acquirenti di discinti vestiti firmati e di biancheria sexy. Questo doppio standard di comportamento, perfettamente normale per gli arabi, è invece un nervo scoperto nel rapporto tra il mondo islamico e quello cristiano: un mondo illuminato dall’idea che “Dio ti vede” e che un bravo credente “non ha niente da nascondere”. Niente di più diverso, del resto, tra le mura ininterrotte che custodiscono la privacy della casa araba tradizionale e le grandi finestre senza tende che permettono a ogni passante di curiosare negli appartamenti tipici di molti paesi protestanti.
La malignità intorno al quadro comunque ha avuto vita breve: si è saputo presto infatti che Bader bin Saud non aveva intenzione di tenerlo per sé, ma lo ha comprato per conto del Dipartimento di Cultura e Turismo di Abu Dhabi. Il quadro sarà esposto nella sede locale del Louvre, e da lì presto farà concorrenza alla Gioconda del Louvre originale.
Ma insomma, le immagini di esseri viventi nel mondo islamico sono vietate o no? Come succede spesso quando si parla di arabi, la risposta è complessa. E richiede due movimenti paralleli: allargare il campo e ritornare indietro nel tempo. Allargare il campo perché il mondo islamico va dal Marocco alla Cina, e dai Balcani al Sudan: se in un territorio così ampio non ci fossero differenze, sarebbe un vero incubo. E tornare indietro nel tempo perché così ci renderemo conto che, come molte “stranezze “ del mondo arabo, anche questa ha radici comuni con quella che consideriamo la “cultura occidentale”, e in particolare con le altre due “religioni del libro”: quella ebraica e quella cristiana.
Partiamo da qui, dal libro che unisce le tre religioni, cioè della Bibbia. Lì il divieto c’è, ed è scritto molto chiaramente. “Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù ne’ cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra», si legge nel libro dell’Esodo. E continua: «Non ti prostrare dinanzi a tali cose». Il divieto è direttamente legato al rischio dell’idolatria: senza immagini di esseri viventi, non c’è il rischio che qualcuno finisca per venerare il vitello d’oro invece del vero Dio.
Nel mondo ebraico il divieto è sempre stato rispettato per quanto riguarda il rischio di idolatria, anche se nel campo dell’arte non ha impedito le donne di Modigliani o i violinisti di Chagall. Tra i cristiani, invece, è caduto presto in disuso: la prima raffigurazione simbolica di Gesù, nei panni de “Buon pastore”, compare in una catacomba romana del III secolo. E per lungo tempo affreschi e dipinti all’interno delle chiese, con le loro storie di vite dei santi, hanno avuto una funzione importante di “catechismo per immagini” rivolto a fedeli quasi sempre analfabeti - mentre ebraismo e islam sono sempre stati caratterizzati dallo studio diretto dei testi sacri.
L’iconoclastia, cioè la “crociata” per la distruzione delle immagini, nasce a Costantinopoli nell’ottavo secolo proprio in risposta all’Islam, che per colpa delle immagini sacre accusava i cristiani di idolatria. Un’altra forma meno famosa di iconoclastia è nata con la riforma protestante: da Calvino in poi, le chiese di chi rompeva i ponti con Roma erano caratterizzate dalla totale assenza di figure sacre, in statue o dipinte: una caratteristica che dura ancora oggi.
Ma torniamo all’Islam. Come scrive François Boespflug nel libro “La caricatura e il sacro” (Vita e Pensiero), «il Corano non vieta esplicitamente le immagini di Dio, né le immagini in generale. Ma è un piccolo gruppo di Hadith ad autorizzare il divieto». È in base a questi aneddoti sulla vita del Profeta – che sono testi importanti, ma non sono, come il Corano, la parola di Allah rivelata a Maometto dall’arcangelo Gabriele - che alcune frange di musulmani considerano proibite le immagini di esseri viventi.
E dal momento che tra i più focosi fautori del divieto ci sono vari gruppi terroristi, l’investimento del principe saudita per il Salvatore leonardesco mostra un chiaro messaggio politico. Come l’apertura ai diritti delle donne, è un modo per dimostrare la vicinanza ai valori occidentali e la presa di distanza dai dogmi dell’Islam più retrivo da parte di un paese, l’Arabia Saudita, che avendo dato i natali a Osama Bin Laden e a 15 dei 19 terroristi morti negli attentati dell’11 settembre ha continuamente bisogno di rassicurare l’Occidente da questo punto di vista.
In uno degli habith, Maometto ordina di togliere le immagini dai luoghi di preghiera per evitare distrazioni. È lo stesso argomento dei cristiani protestanti, e vale ancora oggi: infatti le moschee sono ricche di bellissime decorazioni astratte, non ci sono mai figure di esseri viventi. Un altro hadith dice che «gli angeli evitano di fermarsi presso immagini, cani e persone impure»: è evidente che, come per l’Antico Testamento, il pericolo che l’immagine porta con sé è quello dell’idolatria.
Un terzo testo parla della punizione che aspetta gli artisti nel giorno del giudizio: chi ha realizzato immagini di esseri viventi si sentirà chiedere da Allah di infondere loro la vita. E siccome non potrà farlo sarà per l’eternità lo zimbello di tutti – una forma di inferno, commenta Boespflug, certo meno violenta del classico infermo cristiano.
L’ultimo hadith legato al tema delle immagini ci presenta una scena di vita famigliare del Profeta: sua moglie Aisha aveva fatto delle tende con una stoffa su cui erano disegnati esseri viventi, e Muhammad le chiese di toglierle. Però non fece buttare la stoffa, che fu usata per coprire cuscini. E infatti nel 1940 l’università di Al Ahzar, al Cairo, ha chiarito che l’uso di stoffe con immagini è ammessa per oggetti “sottomessi” alle persone, come appunto i cuscini, i tappeti e anche gli abiti.
Il divieto delle immagini è più sentito nell’islam sunnita, soprattutto nelle frange fondamentaliste come i salafiti e i wahabiti, quelle accusate di un atteggiamento fiancheggiatore verso i terroristi. Gli sciiti invece hanno una visione meno rigorosa su questo tema. Questo spiega le bellissime e famose rappresentazioni di Maometto in miniature persiane del XVI secolo – dove spesso però il volto del Profeta è coperto da un velo bianco. E anche l’uso propagandistico delle immagini dei capi religiosi che si è diffusa in Iran dopo la rivoluzione khomeinista.
Quest’ultimo aspetto ci porta a parlare di fotografie e video: come scrive Maria Bombardieri in un saggio su “La questione delle immagini nell’Islam”, fotografie e registrazioni video sono ammesse, fin dagli anni Venti del Novecento, dopo una raccolta di “fatwa” dell’università di Al Ahzar. Questi giudizi stabiliscono che foto e video derivano da un procedimento meccanico nel quale non c’è volontà creatrice, e quindi non c’è l’intento eretico di imitare Dio: «Le fotografie sono some immagini riflesse in uno specchio e i video sono riproduzioni di “ombre imprigionate”».
Quel che è certo è che lo scarso uso di figure umane ha portato l’arte islamica a perfezionare magnifici giochi astratti, che si sono sviluppati in parallelo a una specializzazione matematica e geometrica che ogni tanto ci ricordiamo di riconoscere: l’algoritmo, come tante parole italiane che in iniziano per al, deriva dall’arabo: per la precisione – lo dice la Treccani, deriva «dall’appellativo al-Khuw?rizm?, cioè originario della Corasmia, una zona dell’Asia centrale», del matematico del nono secolo Mu?ammad ibn M?sa», che codificò questo genere di calcoli. E dalla geometria all’arte astratta il passo è breve.
Del resto molti famosi artisti contemporanei che vengono da un ambiente islamico giocano con l’astratto e con la figura umana in un modo che appare del tutto originale: pensiamo alla pakistana Shahzia Sikander, protagonista di una bellissima mostra l’anno scorso aa Roma al Museo Maxxi: nelle sue opere il disegno geometrico e le figure umane si fondono, e prendono nuova vita grazie a tecnologie usate per realizzare cartoni animati e videogame.
Si arriva così ad animazioni ipnotiche dove frammenti di figure spiccano il volo seguendo le progressioni matematiche che regolano il disegni degli stormi di uccelli nel cielo o la dispersione delle particelle nella corrente. Il risultato sono immagini che sono insieme figurative e astratte, umane e immaginarie. E che affascinano allo stesso modo l’occhio orientale e quello occidentale.