L’Afghanistan e la Roma papalina, nel Seicento, erano unite dalla via del lapislazzulo: una strada frequentata e importante, fondamentale per un dialogo diplomatico che coinvolgeva non solo il Paese che oggi a noi ricorda più che altro burqa e papaveri da oppio, ma anche Istanbul e Teheran. È una delle scoperte che riserva “Meraviglia senza tempo”, rassegna della “Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento” curata da Francesca Cappelletti e Patrizia Cavazzini per la Galleria Borghese di Roma (fino al 29 gennaio 2023).
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER ARABOPOLIS
In mostra, nelle sale di quello che è probabilmente il più bel museo del mondo, tra quadri di Raffaello e Caravaggio e statue di Canova e Bernini, c’è il meglio di un genere pittorico che, prima di vedere questa mostra, verrebbe da definire minore. In realtà dietro la scelta di usare come base di dipinti lastre di lavagna o alabastro, pietra paesina o “di paragone” (quella su cui l’oro falso rivelava sfumature improbabili che permettevano di distinguerlo da quello vero) c’è una storia davvero interessante (che è bene scoprire con l’aiuto di una visita guidata, come è successo a chi scrive).
È una moda che nasce con Sebastiano del Piombo e Clemente VII, il papa Medici che porta da Firenze una familiarità con la lavorazione degli intarsi di pietre di colori diversi. Alla base della scelta c’era lo shock del sacco di Roma, che nel 1527 portò alla distruzione di una quantità di opere dipinte su tela e tavola. La nuova tecnica lanciò una gara di virtuosismi non solo nella maestria con il pennello (si veda “La presa di Gerusalemme” di Antonio Tempesta) o nello sfruttare le colorazioni della pietra (“Cristo appare alla Madre”, sempre di Tempesta) ma soprattutto nell’ideare allegorie religiose che rimandano al valore simbolico della pietra (quella che nel Vangelo viene scartata dai costruttori ma diventa “testata d’angolo” della Chiesa).
Una storia a sé hanno appunto le opere su lapislazzuli: una storia legata alla realizzazione della cappella Paolina di Santa Maria Maggiore, tappezzata di intarsi di pietra azzurra. È una storia di ricchezza e di devozione, di furti e di diplomazia che Francesco Freddolini ricostruisce nei dettagli in un saggio del catalogo (edito da Electa). La passione per i marmi policromi diventò prima la base di una politica di rapporti tra famiglie europee («Le pietre venivano acquistate a prezzi molto alti e continuamente ricercate, soprattutto dai Medici, e il donarle ad altre famiglie regnanti divenne un gesto in grado di sancire rapporti di cordialità e alleanza»), poi di costruzione di ponti tra culture e religioni che avevano alle spalle secoli di guerre e contrasti sanguinosi. Per ottenere le pietre più rare, regnanti e cardinali non badavano a spese, mandavano emissari «nelle terre del Turco» o nel Nuovo Mondo, in Messico o in Perù.
All’inizio dei Seicento il granduca di Firenze si affidò inutilmente a Fathullah Qurrai, nato ad Aleppo e ribattezzato in Italia Michelangelo Corai: «Io sono stato molto tempo ricercando qualche pezzi di lapis lazuli come Sua Altezza m’haveva commandato», scrive Corai, «e l’ho di più raccomandato a miei parenti e diversi amici che sono andati alla volta di Corassan, d’onde gli viene tutto quanto si trova in queste parti, ma al ritorno di loro, dicono che non si trova un pezzo per miracolo». Ebbe più fortuna pochi anni dopo, una volta diventato collaboratore dello scià di Persia Abbās I il Grande: e scrisse trionfante di poter procurare «lapislazuli et altre pietre orientali» provenienti soprattutto da quelle zone della Persia che oggi sono in Afghanistan. Nello stesso periodo, partivano per l’India panelli con i tipici intarsi di pietre fiorentini, destinati a cementare un dialogo tra ricchi mecenati di culture, religioni e civiltà diverse.