Gentile ma ferma, autorevole ma disponibile, severa ma incoraggiante: sono bastati pochi minuti ad Anissa Helou per imporsi all’attenzione dei concorrenti di Masterchef e per conquistare i telespettatori. Eppure, tra tanti ospiti stellati dalle ricette esoteriche, lei proponeva una prova basata su uno degli alimenti più umili e universali: il pane. Declinato in tre versioni diffuse nel mondo arabo-islamico, tipiche di Paesi lontani come l’Uzbekistan; eppure, simili ad alcune comuni in Italia. Tra le sorprese della puntata, scoprire che il pane più amato da Maometto somiglia molto al “carasau”, la “carta da musica” sarda.
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Libanese di padre siriano ma cittadina del mondo, cresciuta in una famiglia cristiana ma in un Paese a maggioranza musulmana, Helou vive tra Beirut, Londra e Trapani, ha lavorato da Sotheby’s e per la famiglia reale del Kuwait, ha fatto l’antiquaria a Parigi e la consulente d’arte in Gran Bretagna. Nel frattempo ha cominciato ad occuparsi di cucina, partendo dal Libano per allargarsi a tutta la galassia culturale arabo-islamica. Ora tiene corsi di cucina e firma libri fondamentali: il più recente è “Feast: Food of the Islamic World”, che parte dai banchetti che ogni sera spezzano il ramadan per raccontare ricette e modi di vivere arabo-islamici. Tutto con grande autorevolezza – non per niente è nella classifica delle 100 donne più influenti del mondo islamico secondo la rivista Arabian, e tra i 500 arabi più potenti del pianeta - e con l’affabilità con cui ha risposto alle domande di Arabopolis.
La cucina arabo-islamica va dal Marocco alla Cina: quali sono gli alimenti e le ricette comuni? E quali i tabù?
«Bene, la prima cosa che si trova attraverso l’intero mondo islamico è il pane. È l’alimento principale in molti paesi musulmani, e rimane uno dei più importanti anche lì dove l’alimento principale è il riso. Anche in Cina, dove non c’è una vera e propria cultura del pane, le comunità musulmane fanno il pane, generalmente cotto in forni a pozzo, “tannur” o “tandoor”. Fanno anche paste saporite chiamate samsa che cuociono negli stessi forni. Anche i loro spaghetti spesso sono fatti con farina di grano. Un altro piatto comune è il kebab, chiamato “sate” in Indonesia e Malesia».
Che non è la carne avvolta in una sorta di piadina che viene venduta nei kebab italiani, ma indica solo lo spiedino di carne…
«Ovunque tu sia, nell’arco che comprende il mondo islamico troverai carne grigliata su spiedini, sia che siano pezzi di carne o un trito avvolto intorno a spiedini piatti. Tra gli uiguri, in Cina, i kebab possono essere cotti nei forni tandoor oppure, più spesso, sono grigliati su fuochi di legna o carbone accesi in scatole rettangolari di metallo: alcuni sono molto lunghi, altri di misura normale. Anche il riso è un ingrediente diffuso: nei Paesi del Golfo, in Iran, India, Pakistan e Indonesia, solo per citarne alcuni. Quanto ai tabù, tutti rispettano la proibizione di mangiare maiale. E durante il ramadan i fedeli sono tenuti a digiunare dall’alba al tramonto».
In tutti questi Paesi ci sono anche popolazioni non islamiche, in altri invece sono i musulmani a essere in minoranza. Quali sono i rapporti tra i diversi gruppi da un punto di vista alimentare?
«Nei Paesi in cui ci sono minoranze diffuse di altre religioni è interessante vedere come le diverse comunità condividano le stesse ricette ma le usino in occasioni diverse. In Libano per esempio i “ma’moul” (dolcetti riempiti con noci o datteri) sono un dolce di Natale o di Pasqua, mentre sono sempre presenti nelle case musulmane durante il ramadan. Lo stesso succede per la “h’risseh”, che è il tipico “piatto da dare ai pveri”. I cristiani lo preparano in grandi quantità il 15 agosto, per la festa della Madonna, e lo distribuiscono ai fedeli davanti alle chiese. I musulmani sciiti lo cucinano in grandi calderoni per distribuirlo per la festa dell’Ashura. Nel Golfo, invece, viene preparato durante il ramadan e distribuito per l’iftar, il pasto serale, fuori dalle moschee o in tende montate apposta per dar da mangiare ai meno fortunati».
Ci sono altre occasioni particolari di socialità legate al cibo?
«Una riguarda i kebab. In alcuni Paesi, come il Marocco, puoi comprare la tua carne dal macellaio e poi portarla al caffè vicino casa tua per fartelo condire e cucinare. In Siria invece sono i macellai a mettere a disposizione un angolo con una griglia, dove condiscono il kebab e lo cucinano per i clienti che lo mangiano sul momento. Un altro piatto che si trova in un numero incredible di varianti è il “buryani” (ricetta di origine persiana di riso cotto con spezie, carne, pesce, uova o verdure, n.d.r.), soprattutto in India, Pakistan e paesi dei Golfo: però ne ho trovato una versione “kabuki”, proveniente da Kabul, diffusa in Indonesia».
Quali sono le influenze della cucina araba su quella italiana?
«Posso parlare della cucina siciliana, che conosco meglio: e qui le influenze sono evidenti perché gli arabi hanno occupato al Sicilia nel nono secolo e hanno introdotto sull’isola lo zucchero. Nasce da qui la meravigliosa tradizione di dolci siciliani, soprattutto quelli fatti con le mandorle. Puoi anche vedere l’influenza araba nella combinazione di dolce e salato in alcuni piatti. Però, a parte questi elementi, le influenze arabe non sono molto evidenti e non c’è un singolo piatto per il quale si possa tracciare una discendenza diretta da una ricetta araba: con una sola eccezione, il cuscus trapanese».
Lei ha raccontato in un’intervista che il suo rapporto con la cucina è stato molto influenzato dal suo essere femminista. In passato, l’obbligo di passare ore in cucina a preparare lunghe ricette era un modo semplice ed efficace per tenere le donne lontane da altri interessi più “pericolosi”: ma oggi può esistere una cucina femminista, o almeno non patriarcale?
«Ho sempre amato il cibo: sono stata una scocciatura continua per mia madre e mia nonna fin da quando ero molto piccola. E penso di aver imparato a cucinare in quel periodo, mentre guardavo attentamente quello che loro due facevano ai fornelli: sinceramente lo facevo più per golosità (volevo sempre assaggiare tutto) che per sete di conoscenza. Questo mi è servito molto quando ho deciso di iniziare a cucinare. Cosa che è successa quando avevo poco più di vent’anni, dopo un periodo in cui avevo deciso di non cucinare per non essere costretta a casa come era successo a mia madre, a mia nonna, alla maggioranza delle mie parenti o delle donne che io allora conoscevo in Libano e Siria. A 21 anni mi sono trasferita a Londra, sono andata a vivere con un ragazzo: e la prima cosa che gli ho detto quando sono andata ad abitare con lui è stata che non si aspettasse che avrei cucinato per lui, o avrei riattaccato i suoi bottoni, o avrei fatto le cose che gli uomini si aspettano che le donne facciano per loro. In quei tempi la mia eroina era Simone de Beauvoir, e io volevo vivere la mia vita come una vera femminista, anche se vivevo con un uomo».
E poi cosa è successo?
«Le mie idee femministe furono sconfitte in un momento una sera, quando lui invitò un’affascinante amica americana e mi chiese cosa c’era per cena. Io gli ho risposto di aprire il frigo e di guardare cosa trovava. Allora lei prese in mano la situazione e si offrì di cucinare per noi. A cena sono rimasta seduta a guardare quanto lui era felice del cibo che lei aveva preparato e mi sono chiesta se dovevo davvero tener fede alla mia decisione di non cucinare. All’improvviso ho deciso di invitare tutti i nostri amici a una cena libanese che avrei cucinato io: io, che fino a quel momento avevo preparato solo un piatto libanese, a sedici anni, con mia sorella, per una cena di mezzanotte. In quel periodo in Libano c’era la guerra civile e non c’era modo di comunicare con il Paese, quindi non potevo chiamare mia madre e chiederle come preparare i piatti che volevo servire. Così ho deciso di cucinare tutto a memoria. Quel che è peggio, Londra in quel periodo era un deserto culinario, ho dovuto girarla tutta per trovare gli ingredienti che mi servivano. In qualche modo però sono riuscita a preparare la cena, anche se non ricordo se i risultati fossero decenti: i nostri ospiti erano europei quindi non sapevano qual era il sapore vero dei piatti libanesi. Però, a quanto ricordo, sono riuscita a preparare per 30 persone del cibo che era non solo presentabile ma abbastanza buono da rendere felici loro e me stessa!»
Quindi una cena le ha cambiato la vita…
«Ho deciso che cucinare era divertente, ma che l’avrei fatto appunto solo per divertimento, e ho cominciato a cucinare quando avevamo amici a cena. E sono sempre rimasta ferma nella mia decisione di non cucinare per il mio compagno, per quello di allora e per nessun altro in seguito, anche se ero rimasta insieme divertita e avvilita nel vedere che era bastato un momento di gelosia per farmi accantonare i miei propositi femministi. Quanto alla cucina femminista, sono sicura che può esistere una attitudine femminista in cucina: se le donne cucinano per il loro piacere o come professione, che è quello che faccio io, coltivando antiche tradizioni culinarie e ricette da passare alle prossime generazioni, o diventando chef dei loro ristoranti, e facendone un posto sereno e armonioso in cui possono lavorare altre donne che condividono la stessa passione».
MasterChef Italia, cooking show di Sky prodotto da Endemol Shine Italy, è ogni giovedì alle 21.15 su Sky Uno, sempre disponibile on demand, visibile su Sky Go e in streaming su NOW.