Qui il partito di Bersani non arriva al 10 per cento e il centrosinistra è alla frutta. Le ragioni? Un misto di malgoverno e clientelismo. Insomma, la rottamazione dei vecchi burocrati è urgente. Il parere di un docente universitario che vive e lavora a Cosenza

Antonio Tursi è senior fellow del McLuhan Program in Culture and Technology a Toronto e collaboratore di Derrick de Kerckhove. Si occupa del rapporto tra nuove tecnologie di comunicazione e forme espressive e politiche. E' autore di  diversi volumi, tra i quali: 'Dopo la democrazia?', 'Estetica dei nuovi media' (2007) e 'Filosofie di Avatar' 2010. Docente di Teoria della comunicazione, vive e lavora a Cosenza, da dove ci ha mandato questa analisi sul fallimento del centrosinistra in Calabria: un evento di cui finora si è parlato poco a livello nazionale.

Lo avete notato? Il vento del Nord che ha spinto il centrosinistra a vincere a Torino e a Bologna e ad affrontare in testa il ballottaggio di Milano si affievolisce sotto Roma. E il centrosinistra ha perso sonoramente in Calabria, con il Pd che non ha superato il 10 per cento. Perché una tale débacle in questa regione?

Tre sono i motivi da prendere in considerazione. In primo luogo, la specificità di situazioni amministrative che hanno fortemente deluso le aspettative dei cittadini. A iniziare dal governo regionale di Agazio Loiero che ha offerto un'immagine di clientelismo al potere capace di dimezzare i consensi in soli cinque anni (partendo da oltre il 60 per cento dei voti ottenuti nel 2005).

Altre amministrazioni si sono dimostrate impalpabili e/o litigiose (come è accaduto al comune di Cosenza dove un sindaco debole è andato avanti per cinque anni con continui rimpasti della sua giunta). Il perseverare su amministrazioni non brillanti è stato ampiamente punito dagli elettori, oltre a generare macerie che rendono difficoltosa la ripresa.

Il secondo fattore è rappresentato dalla luna di miele che il nuovo e giovane governatore pidiellino Scopelliti sta ancora vivendo con gli elettori calabresi che appena un anno fa lo hanno votato. Il suo peso, più per la capacità di offrire un'immagine vincente che per una reale svolta alla guida della regione, si è fatto sentire in molte realtà, a iniziare dalla sua roccaforte Reggio Calabria dove si è votato per il sindaco (affermazione al primo turno del candidato del centrodestra) e dove appare probabile la sconfitta al ballottaggio del presidente della provincia uscente Morabito del Pd. Tra l'altro, Scopelliti propone in Calabria l'alleanza strutturale tra Pdl e Udc con quest'ultima subalterna al punto che Berlusconi ha potuto attaccare frontalmente Casini da Crotone con al suo fianco il candidato sindaco dell'Udc rimasto in silenzio.

Il terzo fattore è rappresentato dallo stato comatoso in cui è stato portato il Pd. Fermo in mezzo al guado tra personaggi che hanno segnato la storia politica calabrese e che non vogliono cedere il passo e una giovane generazione di dirigenti e amministratori che stenta a prendere in mano le redini del partito. In particolare, nel Pd calabrese diventano acuti mali che sono certamente presenti anche altrove.

Tra questi, quattro meritano di essere messi a fuoco. La riduzione di un partito politico a un partito personale. Non solo in quanto ridotto a strumento per personali carriere politiche o personali interessi economici, ma anche ridicolmente rinchiuso all'interno di logiche familistiche con mariti e mogli che occupano posti nelle istituzioni e nel partito ovvero figli che non aspettano neppure il pensionamento dei padri per occupare posti nelle liste.

Il trasformismo non riguarda solo i Responsabili – molti dei quali proprio calabresi – ma anche il Pd. Come risulta evidente osservando le liste in queste ultime elezioni comunali e in quelle regionali dello scorso anno, il partito è usato come un autobus utile per percorrere un tratto di strada e scendere alla tornata elettorale successiva secondo le convenienze del momento. Questo comportamento determina una continua delegittimazione del partito stesso e delle scelte che i suoi organi direzionali assumono.

Un altro male diffuso che in Calabria ha effetti tragici è la riduzione della funzione politica del partito a quella amministrativa del governo: si ha a che fare con il partito del Presidente, del Sindaco o del Deputato di turno. Un partito degli eletti e dei loro entourage che si pone come unico obiettivo quello di occupare gli scranni istituzionali da cui gestire incarichi e finanziamenti. Una politica che ha facile e pesante presa in una regione fragile come la Calabria ma che non paga nel lungo e anche nel medio periodo come le sconfitte elettorali stanno lì a testimoniare.

Infine e soprattutto, in Calabria più che altrove il partito è stato ridotto a partito dei capibastone che non ne vogliono sapere di mollare la presa e che, quando il partito tenta di rialzare la testa e prendere altre strade – secondo l'indirizzo del commissario regionale Adriano Musi –, non esitano a presentare altre liste e a remare contro per svuotare di consensi il simbolo e dimostrare la loro indispensabilità, tanto da cercare poi di addossare le colpe della sconfitta a chi ha portato avanti le ragioni del partito.

Questo agire irresponsabile rende difficile l'affermarsi di giovani dirigenti. Difficile ma non impossibile. Infatti, non è senza motivo che a Reggio Calabria e a Catanzaro con giovani candidati di superamento delle vecchie logiche di fedeltà si siano notati subito segni di ripresa del centrosinistra. I dirigenti del Pd, soprattutto quelli che mostrano capacità amministrativa e riescono ancora a ottenere vittorie elettorali (come alla provincia di Cosenza appena due anni fa o adesso nel popoloso comune di Rende), dovrebbero avere il coraggio di favorire un vero rinnovamento della classe dirigente.

Un rinnovamento che vada al di là della rottamazione urlata di Renzi (che in Calabria è venuto a sostenere non solo il giovane Scalzo, ma anche un sindaco - quello di Cosenza - bocciato dagli elettori con il 15 per cento dei consensi) e al di là delle giovani facce di yes man incapaci di proferire parola e di assumersi responsabilità decisionali.

Per avviare questo rinnovamento serve molto coraggio: i nuovi dirigenti infatti non devono e non possono garantire nessuna rendita di posizione. Ma solo avviandosi su questa strada si può sperare di intercettare nuovamente le istanze degli elettori al cui servizio un partito dovrebbe essere. Altrimenti il rischio sconfitte aumenterà inesorabilmente nei prossimi anni.

È indispensabile in Calabria e in tutto il Mezzogiorno una nuova classe dirigente interessata alle sorti del partito più che alle proprie, coerente, fatta di politici e non di portaborse, unica capace di elaborare un orizzonte di aspettativa a lungo termine che vale la pena di condividere e per il quale vale la pena impegnarsi. Un orizzonte capace di far intravedere un futuro per la Calabria. Un futuro chiamato Calabria 2020.

antonio.tursi@gmail.com

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