
Il 15 maggio 2012 sono entrato in Siria per un terzo soggiorno di osservazione. Sono stato a Homs; a Tal-Biseh, dove ho potuto parlare con dei miliziani dell'Asl (Armata siriana di liberazione); poi a Rastan, dove ho assistito ai combattimenti; poi sono stato ad Hama. Il 17 maggio mi sono presentato al check-point davanti a Tal-Kalakh. Mi hanno arrestato e trasferito al centro dei servizi segreti di Homs, dove mi hanno privato di tutti gli effetti personali, mentre sentivo già attorno a me delle grida spaventose; e immaginavo benissimo quello che stava succedendo in quell'edificio.
Ho risposto a tutte le domande e mi hanno proposto di riposarmi, non in una cella ma nel dormitorio degli agenti di sicurezza. Molto presto però, due agenti sono venuti a cercarmi e mi hanno condotto in una sala dove c'era un altro ufficiale. Quest'ultimo mi ha fatto cenno di togliermi la camicia e le scarpe. I suoi due accoliti mi hanno legato con una cinghia ad un tubo che pendeva dal soffitto. Un quarto uomo ha portato due secchi d'acqua e degli stracci, mentre mi ammanettavano le caviglie. Uno dei subordinati mi ha tolto i calzini, infilandomeli in bocca. Poi sono stato colpito, sulla schiena, sulle reni, sull'addome e sul torso: si potrebbe credere che non sia gran cosa, ma dopo qualche colpo solamente il dolore diventa così forte che ho creduto di soffocare e perdere conoscenza più volte.
Mentre i suoi uomini colpivano, l'ufficiale mi faceva delle domande, ordinandomi nello stesso tempo di stare zitto. Ma, imbavagliato, come avrei potuto rispondergli? Soprattutto non lo sentivo ormai più. Sono stato staccato dal tubo, riammanettato e messo a sedere su una sedia, di fronte ad un tavolo sul quale l'ufficiale ha rovesciato una scatola di aghi di metallo.
I due subordinati mi hanno preso ciascuno per un avambraccio e un polso, tenendomi strettamente sul tavolo. L'ufficiale ha preso il mio indice sinistro tra le sue dita ed ha introdotto l'ago sotto la mia unghia, senza piantarlo, muovendolo lentamente. Mi ha parlato delle mie relazioni con i "terroristi" e mi ha chiesto perché mi muovevo da solo in Siria, facendo fotografie; se io lavorassi per un servizio segreto straniero, per i francesi; perché mi muovevo da un posto all'altro, occupandomi dei "terroristi". Io ho ripetuto tutto quello che avevo già detto, cosa che sembrava accontentarlo. Ma lui ha ordinato che mi attaccassero di nuovo al tubo e che mi imbavagliassero. Un quarto uomo è entrato nella stanza con una scatola munita di un grosso interruttore e di schermi ad aghi. Mi ha applicato sul petto due pinze metalliche collegate alla scatola. Ha fatto girare lentamente l'interruttore; all'inizio non ho sentito che un pizzicore, ma dopo qualche secondo il dolore è divenuto più forte; più girava l'interruttore e più la sensazione di bruciatura diventava forte. L'ufficiale si è avvicinato e mi ha sputato sul petto; con le dita ha bagnato di saliva la pelle a contatto con le pinze, cosa che ha provocato un'accelerazione improvvisa del flusso elettrico, e un dolore violento. Poi mi hanno liberato e sdraiato sul tavolo, ancora imbavagliato, senza farmi alcuna domanda. L'ufficiale mi ha detto di calmarmi, che tutto era in ordine, che rimaneva solamente una formalità: allora ha preso una bacchetta di plastica bianca che penzolava alla valvola del termosifone e mi ha dato 23 colpi sulla pianta dei piedi. Alla fine i suoi sottoposti mi hanno riportato sulla mia brandina.
Poco dopo il rumore dei colpi è ricominciato; i colpi e le urla; molto forti all'inizio, poi sordi, soffocati dai bavagli. Qualcuno implorava "Halas, sidi. Halas, sidi!"("Basta signore. Basta signore!").
Gli agenti andavano e venivano nel dormitorio; e la porta è rimasta aperta a più riprese. Ho visto l'orrore allo stato puro; senza veli, nudo, semplice. I detenuti giacevano in quel corridoio, in mezzo al loro sangue, alla loro urina, al loro vomito. Io ero là; io ho visto; io non ho fatto nulla, terrorizzato, non ho detto nulla, mentre una immensa disperazione mi invadeva. Le luci delle lampadine che illuminavano la stanza sono diminuite e delle grida hanno rotto il silenzio. La porta si è riaperta e ho visto: le bruciature sono profonde, l'elettricità entra nella carne e la carbonizza dove passa. Ho girato il viso verso il muro di fronte alla porta e con l'unghia del pollice ho inciso una piccola croce sull'intonaco; cattolico, mi sono confessato a Dio; gli ho promesso che, se ne fossi uscito vivo, avrei raccontato a tutti quello che avevo visto quella notte; e l'ho promesso anche a quelli che giacevano nel corridoio.
Verso le nove sono venuti a prendermi. Quando la porta si è aperta sono sbiancato alla vista dei corpi senza vita distesi lungo il corridoio; l'agente mi ha guardato, come stupito dalla mia reazione, e mi ha spinto verso le scale, verso l'uscita, in un autobus della polizia, che ci ha portato, quattro detenuti oltre a me, nel centro di Palestine Branch, a Damasco. Lì non ho subito che delle intimidazioni indirette: mentre mi facevano le domande un uomo colpiva, proprio al mio fianco, un armadio di ferro con un lungo pezzo di legno; e molti agenti torturavano di fronte a me un vecchio a cui avevano bendato gli occhi; lo spingevano per farlo cadere, lo colpivano al suolo, lo sollevavano e ricominciavano.
Più tardi, sono stato rinchiuso in una cella sotterranea, nella prigione civile di Bab al-Musalla, per essere espulso dal Paese. Sono stato trasferito con una camionetta senza finestre. Di fronte a me un ragazzo di quattordici o sedici anni, ammanettato sulla schiena e con gli occhi bendati. Le sue gambe nude erano bruciate dall'elettricità. Mi hanno rinchiuso in una cella con dei prigionieri politici la cui solidarietà è stata eccezionale; mi hanno curato, mi hanno dato da mangiare, mi hanno aiutato a lavarmi, mi hanno prestato una coperta. Alcuni di loro si trovavano in quel sotterraneo da più di due anni, senza respirare l'aria pura, senza vedere il sole né sapere se fuori era giorno o notte. La maggior parte di loro era stata torturata prima di finire lì. Ahmed mi ha raccontato dei suoi 28 giorni nelle mani dei servizi, di come lo colpivano a bastonate più volte al giorno. La storia più triste è quella di Muhammad, kashmiro, chiuso là dentro da più di sei mesi; per l'ambasciata indiana è pakistano, per quella del Pakistan è indiano. Tutti i suoi familiari sono morti, è solo al mondo. Chi non ha parenti fuori, per pagare, non riceve che un pasto al giorno, sempre lo stesso, e nemmeno tutti i giorni: delle gallette, delle cipolle; una scodella di riso viene lasciata al centro della cella e i detenuti le si gettano sopra.
Con la complicità dei miei compagni di cella ho potuto fare passare un messaggio all'esterno, pagando un guardiano. Il ministero degli Esteri belga ha immediatamente messo tutto in opera per farmi uscire dalla Siria. Sono stato liberato il 23 maggio.
Ho sempre difeso i principi del diritto westfaliano e quelli della sovranità nazionale e della non ingerenza. Ho denunciato le guerre neo colonialiste in Afganistan, in Iraq o in Libia, motivate dagli appetiti economici e dalle considerazioni geostrategiche, i cui "scopi umanitari" non erano altro che dei pretesti e dei paraventi. Ma, mi unisco oggi agli appelli per un intervento militare in Siria, che possa far cessare l'abominio del regime.
traduzione di Michele Pisciteli