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In effetti, Detroit ha vissuto una lenta ma inesorabile eutanasia per poi precipitare nel baratro, seguendo una parabola che presenta molti moniti per paesi alla presa con una decadenza di lungo termine. Come l'Italia.
Molto si è già scritto sulle cause lontane di questa bancarotta: dal declino dell'industria automobilistica iniziato negli anni Sessanta ai violenti scontri razziali del 1967; dall'esplosione della criminalità all'esodo della popolazione (passata da 1,8 milioni nel 1950 ai poco più di 700 mila di oggi su un territorio che è il doppio di quello del comune di Milano); dalla disoccupazione più che doppia (quasi il 19 per cento) rispetto alla media nazionale alle crescita esponenziale del debito della città. Il fatto è che mentre Detroit decadeva, le amministrazioni che si sono succedute alla sua guida hanno sempre annunciato l'inizio di una "rinascita" dopo una fase di "emergenza": in realtà non avevano alcuna idea su come impostare la prima se non attraverso slogan elaborati da esperti di pubbliche relazioni. Più facile affrontare l'eterna emergenza nel modo più sbagliato: aumento del debito, schizzato fino ai quasi 20 miliardi di dollari di oggi, e tasse cresciute di pari passo per far fronte a una base imponibile che si riduceva, a causa della crisi dell'industria e del crollo della popolazione.
Secondo uno studio del Lincoln Center for Land Policy, già nel 2011 Detroit era giunta ad avere le tasse sugli immobili più alte fra tutte le prime 50 città degli Stati Uniti: il proprietario di una abitazione dal valore catastale di 150 mila dollari ne pagava quasi 5 mila di tasse, contro una media nazionale di poco meno di 2 mila. Eppure, il valore di mercato degli immobili era crollato ai livelli più bassi di tutte le città statunitensi, con un prezzo di 16.800 dollari per un'abitazione media - dieci volte più basso della penultima città statunitense, la poco conosciuta Mesa (Arizona). A peggiorare le cose, grava l'accusa che l'amministrazione cittadina abbia gonfiato artificiosamente i valori catastali anche di dieci volte pur di racimolare più soldi. Ma tirare la corda ha sortito l'effetto contrario: il 47 per cento dei residenti di Detroit ha smesso di pagare le tasse sulle proprietà.
Nella sua spasmodica ricerca di fonti di finanziamento per tamponare l'emergenza, Detroit aveva dato in garanzia perfino i flussi di cassa dei tre casinò cittadini, tra le poche attività capaci di trarre profitto dalla disperazione. Ma senza uno sforzo per la crescita, tutto era stato vano. Peraltro, a fronte di debiti e tasse insostenibili, il livello dei servizi a Detroit è sconvolgente: circa il 40 per cento del territorio cittadino non ha illuminazione pubblica, la polizia risponde alle chiamate dopo una media di 58 minuti (contro 11 nel resto degli Usa), solo l'8,7 per cento dei crimini viene risolto, interi quartieri semi-abbandonati sono infestati dai topi. La crisi, però, non ha fermato l'orda rapace della corruzione pubblica. Nel 2012, era stato arrestato per tangenti, racket, estorsione, l'ex sindaco Kilpatrick; ora è accusato di corruzione il gestore di due fondi pensione di ex dipendenti della municipalità. Ma sono solo due nomi di una lista cospicua di funzionari pubblici che negli ultimi 30 anni hanno prosperato sulle rovine della città.
Forse è troppo dire che tutto questo ricorda da vicino molti tratti della crisi che avvinghia il nostro e altri paesi. Ma certo il caso di Detroit è un monito potente su come il corto circuito tra declino economico, debito e tasse insostenibili, corruzione dilagante e una classe dirigente inadeguata possa anche avere una gradualità illusoria: ma prima o poi, come per il personaggio di Hemingway o per Detroit, sfocia nell'anticamera dell'inferno.