
Già, perché fu proprio lui poco più di un anno fa, quando rischiava di finire in galera se la Cassazione avesse confermato la sua condanna per mafia, a vendergli a peso d'oro Villa Camalcione sul lago di Como. Valutata pochi anni prima 9 milioni di euro, al Cavaliere ne costò 21 e subito i sospettosi pm di Palermo aprirono un'indagine ipotizzando un ricatto. O almeno un indennizzo per i rischi che correva Marcello anche a causa di Silvio. L'indagine fu poi trasferita a Milano, dove non se n'è più saputo nulla.
Sappiamo invece com'è andato il processo per concorso esterno in mafia: la Cassazione annulla con rinvio la condanna a 7 anni, pur affermando che è fondata su solide basi, eccezion fatta per il periodo 1977-82 in cui Dell'Utri lasciò l'amico Silvio per andare a lavorare con un altro amico dei mafiosi, Rapisarda. Il 25 marzo scorso, nel secondo processo d'appello, i giudici confermano la condanna a 7 anni, ma per le motivazioni chiedono altri 90 giorni oltre ai 90 canonici. Insomma il deposito non sarà prima del 25 settembre.
E la Suprema Corte esaminerà definitivamente il caso solo quando la difesa avrà presentato il ricorso, cioè il prossimo anno. E dovrà fare le corse, altrimenti a fine 2014 scatterà la prescrizione (le prove arrivano fino al 1992 e il concorso esterno si estingue in 22 anni e mezzo). Esattamente come nel processo Andreotti, dove il reato si esauriva due mesi prima del verdetto d'appello. Con una differenza: la stella del Divo Giulio si era già spenta da un pezzo, mentre quella di Marcello e Silvio è ancora splendente.
Eppure è bastato che, per un puro calcolo elettorale, il braccio destro del Cavaliere non venisse ricandidato perché tutti si dimenticassero di lui e, soprattutto, di tutto ciò che ha fatto per il suo principale. Il quale è al governo con Pd e Scelta Civica e con loro si appresta a riscrivere la Costituzione, sebbene la Cassazione abbia già sentenziato che Dell'Utri fu il "mediatore" fra lui e la mafia fin dai primi anni Settanta con un «comportamento di rafforzamento dell'associazione mafiosa» e «favorì i pagamenti a Cosa Nostra di somme non dovute da parte di Fininvest»: somme che il Cavaliere pagava ai boss «per la sua sicurezza e quella dei suoi familiari», anziché rivolgersi ai carabinieri.
Ai giudici son mancate le prove (o il coraggio) per proseguire il discorso sul periodo in cui Dell'Utri si rivelò ancor più utile come cerniera fra Palermo e Arcore: quello dal 1993 in poi, quando si reinventò da pubblicitario a politico e creò Forza Italia. Ma anche questa sentenza minimalista dovrebbe bastare e avanzare per porre ai nuovi alleati di Berlusconi una questione politica ed etica grande come una casa, anzi come una villa: quali ricatti sono in grado oggi di esercitare le decine di mafiosi rimasti in vita e in silenzio su tutto ciò che sanno?
Conosciamo nel dettaglio il prezzo dei ricatti delle Olgettine, a botte di 2.500 euro al mese. Ma nulla sappiamo del prezzo, magari "soltanto" politico, dei ricatti mafiosi. Sono recenti le parole di Totò Riina sulla trattativa Stato-mafia, a margine del relativo processo in corso a Palermo, dov'è imputato anche Dell'Utri per aver aiutato Cosa Nostra a ricattare lo Stato nel 1992-93.
Nell'ipotesi di accusa, la mafia ricatta lo Stato, ricattando Dell'Utri, che a sua volta ricatta Berlusconi. Che ora deve fare qualcosa per salvare dal carcere non solo se stesso, ma anche l'amico di sempre. Un mese fa alcuni parlamentari Pdl hanno presentato una legge che dimezzava le pene per il concorso esterno. E sarà un caso ma, come ha notato Saviano, il governo Letta contro la mafia dice poco e fa ancor meno. Sarebbe come parlare di corda in casa dell'impiccato.