Diversi istituti di credito devono ancora affrontare un duro risanamento. Altri dovranno essere venduti, ma trovare acquirenti non sarà facile

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Mannaggia davvero la mia banca può fallire? Proprio a ridosso di Natale, gli italiani hanno preso coscienza di una novità che cambierà radicalmente abitudini e costumi. Anche se il governo è intervenuto in extremis per evitare la liquidazione di quattro istituti commissariati - Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti - chi ha investito in una banca non può più confidare che i propri quattrini siano al riparo da un eventuale crac.

«Dobbiamo rassicurare i risparmiatori sul fatto che tutte le istituzioni stanno operando per evitare casi futuri», ha detto il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, cercando di allentare le tensioni, visto che la fiducia dei clienti è un fattore decisivo per la tenuta del sistema creditizio.

Eppure, a dispetto delle rassicurazioni, sui mercati sono giorni difficili per i titoli delle banche. Come si vede dalla tabella a fianco, le vendite hanno messo sotto pressione anche gruppi come il Banco Desio, in grado di chiudere in utile anni difficili come il 2013 e il 2014. E hanno colpito duro Monte Paschi e Carige, reduci entrambe da ingenti pulizie di bilancio e massicce ricapitalizzazioni, effettuate proprio per mettere in sicurezza i conti, nel momento in cui la vigilanza è passata dalla Banca d’Italia alla Banca centrale europea (Bce). Perché Francoforte, fin da subito, ha voluto segnare un cambio di passo: se i conti traballano, gli azionisti devono correre rapidamente ai ripari, rafforzando il capitale sociale.

L’autunno appena terminato passerà dunque alla storia come il momento in cui è naufragato uno dei miti su cui era fondato il sistema della vigilanza bancaria: la tutela a ogni costo del risparmio. Le nuove regole europee prevedono infatti che chi ha investito in azioni e in obbligazioni subordinate delle banche sia chiamato a partecipare al costo di un eventuale salvataggio, perdendo i propri soldi. E che i conti correnti più ricchi, per i depositi che superano la soglia di 100 mila euro, vadano incontro allo stesso rischio.

Sono norme studiate per bloccare quello che si chiama “azzardo morale”: se un banchiere sa che alla fine, anche se le combina grosse, toccherà ai contribuenti salvargli la pelle, può essere tentato di compromettere la solidità del proprio istituto.

Consapevole dell’importanza di questa rivoluzione, negli ultimi tempi la Banca d’Italia aveva tentato di parare i prevedibili contraccolpi, commissariando a raffica diversi istituti. Se una volta la gogna del commissariamento toccava quasi sempre alle banchette, nell’ultimo periodo Bankitalia l’ha inflitta anche a gruppi di dimensioni più significative, a cominciare da Banca Marche e da Banca Etruria, per arrivare alle casse di Rimini, Teramo, Ferrara, Chieti o alla Popolare Spoleto. Perché?

Alcuni numeri aiutano a dare una risposta. I primi riguardano i prestiti fatti dalle banche a clienti che non riescono più a restituirli nei modi previsti. Vengono chiamati crediti “deteriorati” e a fine luglio avevano raggiunto i 330 miliardi, una fetta enorme (il 18 per cento) rispetto al totale dei prestiti, che supera di poco i 1.833 miliardi.

Dati preoccupanti, per tre diversi motivi. Il primo è che alla fine del 2007, prima del crac della Lehman Brothers, era deteriorato solo il 6,1 per cento del totale dei crediti. Il secondo è che una quota rilevante di questi prestiti a rischio, pari a 197 miliardi, è costituita da quelli la cui situazione è più compromessa, detti “sofferenze”. Il terzo motivo è che una simile mole di prestiti problematici rischia di pesare a lungo sui guadagni dell’intero sistema.


In momenti di vacche magre molti banchieri non sono più riusciti a mascherare gli effetti in bilancio della loro cattiva gestione, come accadeva quando i conti grondavano utili. Di qui i commissariamenti, che però solo in un numero limitato di casi Bankitalia è riuscita a concludere con i vecchi sistemi, pilotando gli istituti colpiti nelle mani di un acquirente. Perché il passaggio della vigilanza alla Bce ha messo sul chi vive i gruppi maggiori, che non hanno più intenzione di accollarsi i problemi altrui, come accadeva spesso in passato.

Non è solo una questione delle magagne che si possono nascondere nei bilanci delle banche in vendita, è un problema più profondo: per assorbire una mole tanto ingente di sofferenze ci vorranno anni e un’economia in ripresa duratura. E le banche dovranno risolvere anche il problema di come tornare a attrarre depositi e investimenti da parte di risparmiatori oggi atterriti.

Ecco perché le spine del sistema sono ancora così numerose. Un caso delicato sono due importanti popolari come Veneto Banca e Popolare Vicenza. La prima ha appena deliberato un aumento di capitale da un miliardo e la trasformazione in società per azioni per quotarsi in Borsa. La seconda dovrà farlo nei prossimi mesi. Entrambe però stanno affrontando la rabbia dei loro soci, che con le vecchie regole interne avevano comprato titoli a prezzi sopravvalutati che, ora, varranno molto meno.

Ma anche le banche che hanno già visto cambio di gestione, svalutazioni e ricapitalizzazione, continuano a soffrire. Perché il problema vero è trovare un assetto futuro, in un momento in cui pochi gruppi, anche dall’estero, sembrano interessati a comprare banche più piccole.

Un esempio arriva da Carige, l’ultima scommessa di un imprenditore-finanziere come Vittorio Malacalza, 78 anni, emiliano d’origine da tempo trapiantato a Genova. Dopo aver messo insieme quasi 1,6 miliardi di plusvalenze in trasferta, vendendo un’acciaieria friulana a un magnate ucraino e uscendo dalla milanese Pirelli al termine di un lungo scontro con Marco Tronchetti Provera, Malacalza ha tentato di vincere anche in casa, entrando nella banca simbolo di Genova, Carige.

Diventare il primo azionista dell’istituto reduce dai disastri della gestione di Giovanni Berneschi, gli è costato 250 milioni. La discesa del titolo in Borsa - arretrato di quasi il 30 per cento negli ultimi due mesi - gli sta facendo perdere (per ora sulla carta) una cinquantina di milioni. Malacalza confida nell’opera di pulizia in cui è impegnato l’amministratore delegato Piero Luigi Montani, che nel giro di due anni ha portato a casa 1,65 miliardi di aumenti di capitale.

Ma in Borsa il titolo non va: «Ci sono notizie negative, che attengono al passato, che offuscano il lavoro che stiamo facendo», ha detto Montani. Il problema, però, è più ampio: uscire dalle secche della crisi richiederà a molte banche di cambiare completamente. E prevedere chi ci riuscirà e chi no, oggi è forse impossibile.