A mezzo secolo dal loro ultimo 
concerto, i Fab Four si sono trasformati 
in divinità stabili del pantheon moderno. Simbolo di un’immaginazione che non è mai andata al potere, ma in cui si incarnano utopie e speranze eterne

La facoltà dell’immaginazione. C’è stato un momento storico in cui questa facoltà ha preso il potere. I Beatles l’hanno incarnata. Un profluvio di colori e sogni che diventavano realtà. Un momento storico che si è staccato dalla Storia per farsi storia a sé stante, parallela e senza tempo.

Diceva Ezra Pound che «il classico è il nuovo che rimane nuovo». Concetto apparentemente inafferrabile, ma incredibilmente carico di sintesi: i Beatles non sono in realtà mai stati “riproposti”, non sono mai “tornati di moda” e tantomeno sono stati “riscoperti”: come un fiume in piena hanno continuato a scorrere a fianco dei decenni che si sovrapponevano l’uno all’altro, scacciandosi a vicenda. In questo fiume continuiamo a essere immersi quando lo vogliamo e allo stesso tempo ci ritroviamo senza accorgercene, tanto persuasivo è il suo impeto, tanto continua a travolgerci: “Il nuovo che resta nuovo” genera una scoperta incessante, in un vortice di immagini, emozioni e suoni che non è memoria ma attualità. Sviscerando, svolgendo la matassa, non possiamo che prendere atto che siamo sempre più coinvolti, che la matassa non si svolge: siamo - per usare le parole di un mito italiano della canzone -“per sempre coinvolti”.

È successo che un tempo ha smesso di essere tale, balzando fuori dalle cronologie, per farsi Luogo dello Spirito, in un tripudio di maiuscole a cui non siamo più avvezzi, oggi che tutto passa velocissimo. Quel tempo, anzi quel Tempo, è stato quello del grande cambiamento o meglio, come dicevamo all’inizio, della facoltà dell’immaginazione. Facoltà incorruttibile e sovrabbondante. Fonte eterna.

Lo scorso secolo è stato tutt’altro che breve. Lo scorso secolo è stato marcato da un decennio in cui l’immaginazione non ha “preso il potere” ma lo ha contrastato con l’arma più forte che all’ottusità del potere si può opporre. Quel decennio, gli anni Sessanta, ha coinciso perfettamente con la storia dei Beatles e i Beatles ne restano gli ambasciatori perfetti.

È difficile rievocare un tempo così lontano da noi. Un tempo in cui tutto pareva potesse cambiare in meglio. Un tempo in cui l’utopia si faceva carne, sudore, danza al cospetto di un mercato ancora in parte ingenuo, e che ne cercava l’icona perfetta trovandola nei Beatles. Scindere spirituale e commerciale diventa allora impossibile. I miliardi di ascolti dei loro brani, la moltitudine di quarantacinque giri, di vinili, di audiocassette, di cd, oggi sostituiti tutti da ascolti on line che volatilizzano i Fab Four come elemento della nostra atmosfera, ne fanno un elemento costitutivo della Storia dell’umanità.

Chi l’avrebbe mai detto. Quattro ragazzi di Liverpool, quindi di periferia, una periferia di un impero che non aveva centro ma incominciava a prendere forma, avrebbe suonato per sempre la colonna sonora di un sogno ininterrotto. Noi ne facciamo parte. Nel Pantheon del moderno, i Beatles attraversano in fila indiana la strada smarrita del senso diventando loro stesso senso, tracciandone il percorso loro stessi: come a dire che continuano a darci senso, a insegnarci una gioia che travalica il presente.

Oggi, senza più baricentro, i Beatles restano come valida alternativa alla perdita di equilibrio che il nostro immaginario ha subito. Come restassero per sempre in sottofondo, e basta alzare il volume della radio, o della memoria, o del video scelto su YouTube, per gustarne la formula perfetta e inattaccabile, in un’alchimia di suoni, immagini, storie e speranza.

“Speranza” è la parola che fissa i Beatles nell’eternità vacillante e fragile che il nostro mondo riesce ancora a concepire. Una speranza storicamente volta all’indietro ma interpretabile anche come germe per un futuro che ancora non ha preso forma.

“A ticket to ride”, una delle loro tante hit, è anche uno dei molteplici indizi di quanto è successo, succede e accadrà intorno ai Beatles, e grazie ai Beatles: un biglietto per viaggiare. In tutte le accezioni possibili: viaggiare nel passato in cui utopia e presente si sono incontrati. Viaggiare nella vastità di un percorso musicale che si è fatto storia del costume e della società occidentale al massimo della sua capacità di essere inclusiva, di fagocitare qualunque cosa e poi restituirla più colorata, più vitale, in un’attitudine al gioco (tremendamente serio, come in ogni espressione artistica degna di questo nome) che confondeva spiritualismo buddista e presunte suggestioni sataniche viste dal lato liberatorio delle forze represse, e dunque in chiave più che positiva, la stessa chiave che ha dato origine alla loro, alla nostra musica: quel blues che era il canto di confine tra la liberazione dalle oppressioni secolari e la loro trasformazione in business. Trasformazione gioiosa quanto infida (Lennon ci ironizzò con il titolo di un album, “Beatles for sale”: i Beatles in vendita, appunto). Inevitabile e evitata allo stesso tempo.

I Beatles hanno in questo senso superato il concetto di non contraddizione. Caratteristica che si confà più alle divinità che agli umani, o almeno, prendendo in prestito i concetti dalla mitologia classica, agli eroi: a metà tra gli umani e gli Dei, in un florilegio incontenibile (inenarrabile) di episodi, di prove, di fatiche, di avventure o di semplici aneddoti.

Dalla canna a Buckingham Palace al sacrificio (al “rendersi sacro”, quindi) di John Lennon, passando da un’infinità di meandri (di affluenti) di un fiume carsico ininterrotto, i Beatles sono stati e continuano a essere un fenomeno talmente inafferrabile da continuare, proprio per questo, a correre sui binari delle generazioni che si allontano magari da se stesse ma non dai Beatles, sempre presenti, loro, a noi stessi più di quanto non lo siamo, noi, in termini di autocoscienza. Perché i Beatles sono l’aspetto più saldamente gioioso e gratificante di un immaginario collettivo ormai alla deriva. Loro tengono, noi no.

Per questo non è neppure consapevole il moto con cui ci abbracciamo alle loro canzoni, alle loro storie, alle loro scelte più o meno controverse: perché, loro, oggi, sono fortissimamente, come una sorta di big-bang di un storia che sentiamo nostra ma abbiamo perduto e non siamo in grado di ricostruire: nella copertina fantasmagorica di “Sgt. Pepper” ci siamo tutti, come in un allegro detonatore di identità collettiva. Nel cuore di una festa che resiste a ogni ferita del tempo e alla sua carneficina.

Il pacifismo, il ribellismo dei Beatles ha raggiunto e mantiene un equilibrio vertiginosamente inaccessibile, inclusivo e benefico e sconfinato nella mediazione di una compostezza di fondo molto british quanto cosmopolita. Bravi ragazzi ribelli a ogni convenzione: ancora, oltre il principio di non contraddizione, i Beatles continuano a fare sintesi, a unire ciò che non potrebbe unirsi se non in uno stato di grazia estatica sottilissima.

La loro vittoria sconfinata ha tanto da insegnarci: l’essere testardamente impermeabili a tutto ciò che non è gioia vissuta nel presente. Proprio oggi che siamo orfani di un adesso che si mostra come immediatamente altro, già lontano al momento del suo compiersi.

C’è in tutto questo qualcosa di straziante, di tragico: forse, la tragedia precipua, colta qua in perfetta raffigurazione, del contemporaneo: i Beatles, nel 2016, sono più attuali di quanto non lo siamo noi. Tutto quanto è venuto dopo di loro, è stato “ri-creazione”: nella doppia valenza di riproposta quanto di evasione (divertita? divertente? Non molto) momentanea. Un momento che continua a non finire. Una sospensione lacerante che la discografia, la filmografia, la storia dei Beatles sono ancora in grado di riempire.

Al nostro grido d’aiuto i Beatles rispondono in pompa magna con una raffica di good vibrations: allora, con un viaggio del tempo alla portata di tutti e attraverso un codice universale, ritorna, inaspettato, il presente.