Cinquant’anni di carriera, 145 milioni di dischi venduti e ?uno stile che non passa di moda. Barbra racconta il nuovo disco. E dice: ”Mi impegno per aiutare la società a migliorare”

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In oltre cinquant’anni di carriera Barbra Streisand non ha mai fatto, o creato, nulla di ordinario o anche solo soddisfacente. A volte si è forse mossa sopra le righe dei codici del gusto convenzionale, banale però non lo è stata mai. Un talento robusto e una volontà d’acciaio l’hanno catapultata alla fine degli anni sessanta sul piedistallo di icona culturale d’America. Status che ineluttabilmente allora come oggi vale da Los Angeles a Tel Aviv.

Streisand ha rappresentato più di ogni altra diva, artista o icona, il nodo gordiano delle sensibilità e colori d’America. Delle sue culture. In particolare di una: quella della sua comunità ebraica. Più specificatamente: delle donne ebree americane. Non ha solo influenzato i processi di cambiamento di queste culture. Con la sua opera omnia ha contribuito a forgiarle. Da cantante di rivista a sex symbol da copertina; da interprete senza eguali del songbook americano (centoquattro dischi di platino, trentasette d’oro e undici d’argento) ad attrice premio Oscar (migliore attrice in “Funny Girl”, 1969; migliore canzone in “A Star is Born”, 1977); da regista ossessionata per il dettaglio, a produttrice cinematografica e poi da vent’anni a questa parte anche potente organizzatrice di raccolte fondi per il partito democratico.
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Con oltre 73 milioni di album venduti negli Stati Uniti e un totale di 145 milioni di dischi venduti in tutto il mondo, a 74 anni Streisand è l’artista femminile che ha venduto di più al mondo. Un’artista di valore. Ma anche un simbolo di potere. «Non so cosa sia esattamente il potere», si schermisce lei. «Non l’ho mai cercato, né voluto. Ma c’è una responsabilità quando si ha alle spalle una carriera come la mia: la responsabilità di chi con la sua opinione e il suo impegno può, se non cambiare, almeno muovere qualcosa. A volte addirittura spostare di qualche centimetro in avanti la frontiera di una società. Appoggiando le sfide giuste, le idee giuste, le organizzazioni giuste».

Streisand torna ora con un album che la riporta alle radici della sua carriera a Broadway, iniziata nei piccoli piano bar del Greenwich Village di New York alla fine degli anni 50. “Encore: Movie Partners Sing Broadway”, questo il titolo del suo trentacinquesimo album registrato in studio, è qualcosa di speciale: non una semplice serie di duetti come da anni ormai vanno di moda. Perché chi accompagna Streisand nei pirotecnici arrangiamenti dei dieci accuratissimi brani di questo manifesto dell’intrattenimento americano non sono colleghi musicisti, ma colleghi attori e attrici, stelle di Hollywood come lei: Anne Hathaway in “At the Ballet” (dal musical “A Chorus Line”), Alec Baldwin in “The Best Thing That Has Ever Happened” (da “Road Show”), Hugh Jackman in “Any moment now” (da “Smile”), Melissa McCarty in “Anything you can do” di Irving Berlin, e poi Antonio Banderas, Patrick Wilson e Chris Pine. Un album monumento all’inestimabile contributo che la Streisand ha dato a Broadway e Hollywood fondendo insieme, nei dischi e nelle pellicole, il palcoscenico del musical con la cinepresa. Un monumento che però lei contempla tenendo i piedi ben saldi per terra: «Che mi si creda o no, io sono sempre la ragazza che nella nostra piccola casa di Brooklyn davanti alla Tv sognava le stelle del cinema, con un fuoco che le bruciava nel petto. Perché negli anni cinquanta a una ragazza ebrea di Brooklyn col naso grosso nessuna porta si apriva facilmente...»

E non solo nel mondo dello spettacolo. «Il problema non era solo entrare negli studi di Los Angeles, ma anche accedere a un qualsiasi colloquio di lavoro a Manhattan. Cinquant’anni fa a Hollywood non ho portato glamour o sex appeal, ma il coraggio e la forza d’animo degli esclusi». Questa è la cifra della Streisand, la luce e la forza del suo astro: quella della resilienza di chi parte svantaggiato ma quello svantaggio sa trasformarlo nel fulcro su cui posare la leva che la catapulta verso il successo. «Sono stata la vendetta delle ragazze della mia generazione.

Ebree, e non solo», commenta decisa. “Funny Girl” (1968), il suo primo grande successo al cinema, è paradigmatico dell’impegno “à la Streisand”. In quel film è un’attrice brava ma non bella che riesce a conquistare i cuori di uomini bellissimi (e non solo ebrei...) con la forza del suo talento e determinazione. Talento ed emancipazione però non sono l’ideale, allora come oggi, per sostenere una relazione basata sulla divisione tradizionale dei ruoli uomo-donna. Gli uomini allora scappano, e la “funny girl” resta sola. Ma non si piega. Da quel film Streisand è il simbolo dell’emancipazione femminile in America. Un percorso confermato, difficoltà comprese, in “Come eravamo” (1973), dove è la moglie impegnata ed esigente di Robert Redford.

Malgrado film e dischi di successo e malgrado l’impegno politico, Streisand è e resta prima di tutto la più intensa voce dei palcoscenici di musical d’America. Da questo punto di vista “Encore” chiude un ciclo iniziato con “The Broadway album” del 1985 e “Back to Broadway” del 1993, entrambi premiati diverse volte con il disco di platino. «È il terzo album che dedico a Broadway perché la mia carriera è iniziata lì. Su quei palcoscenici allora l’America portava in musica sogni di grande forza e progresso. Tra abiti magnifici e voci straordinarie si raccontavano storie di impatto sulla società. “Encore”», confida Streisand, «è una delle cose più belle che abbia mai fatto. Non abbiamo solo cantato in studio, ma anche recitato. La prima canzone che ha inciso? «“Any Moment Now” con Hugh Jackman. Un brano perfetto da cantare e recitare. Come attrice, ho sempre amato brani che dessero anche l’opportunità di recitare. E questa è una canzone su una coppia che non sa comunicare: una situazione perfetta per due attori».

«Recitare, per me, è sempre stato un processo interno, intimo», prosegue l’artista. «Non è per il pubblico, anche se in definitiva naturalmente lo è. L’ho scoperto subito, a inizio carriera, che il vero valore di un attore è quello che ha dentro, non quello che porta fuori con gesti e sguardi. Recitare è solo lo strumento per cristallizzare la ricchezza di un cuore e di un’anima. I migliori attori, del resto, sono quelli di cui si percepisce l’autenticità, non quelli che si sforzano di piacere».

Da venticinque anni Streisand vive a Malibu, ritirata nella sua magione affacciata sull’oceano. Le uscite sono rare: una première, un concerto di beneficenza, una cena di raccolta fondi per un politico democratico. Per “Encore” invece ha deciso di esibirsi dieci volte in altrettante metropoli americane partendo da Los Angeles. Il management fa trapelare anche date europee in arrivo: poche, tre al massimo. Londra e Berlino tra queste. Cinquant’anni fa, proprio a Malibu, Streisand ricevette lo scettro dell’intrattenimento americano da Judy Garland durante una puntata leggendaria del “The Judy Garland Show”. Era il 1962. La veterana Garland stupì il pubblico rivolgendosi a fine trasmissione alla ventenne Streisand: «Ti ascolto rapita in radio a casa. E ti odio per quanto sei brava». La stagione successiva quello spettacolo sarebbe diventato il “My Name is Barbra Show”. Quest’anno c’è stato un altro passaggio di scettro: Barbra ha aperto il suo tour nel leggendario Staples Center di Los Angeles. La sera dopo, sullo stesso palcoscenico, Adele ha iniziato il suo tour americano: le prime tre canzoni erano cover della Streisand. L’omaggio della voce più bella di oggi alla voce più bella di sempre.

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