L’incredibile, ultimo spot del regime di Pyongyang: un comprensorio sciistico per ricchi cinesi ed europei Gli impianti di risalita sono prodotti in Occidente, gli attrezzi a noleggio sono tutti di marca e vengono anche dall’Italia. L’embargo è stato aggirato grazie all’intermediazione di Pechino (Foto di Alessandro D’Emilia)

Sciare in Corea? Perché no. Quando il mio amico Michael me lo propone penso che l’anno prossimo ci saranno pure le Olimpiadi invernali, a Pyeongchang, località montana a meno di duecento chilometri da Seul : andare in avanscoperta non sembra una cattiva idea. Settimana bianca in Corea, dunque? Avverto due dei miei figli, Alessandro e Michele: uno fa il maestro di sci e il fotografo, l’altro va ancora a scuola. Preparatevi, dico loro, si va in Corea. Ma c’è un piccolo equivoco: «Macché P yeongchang», mi spiega Michael al telefono, «io intendo Masik Ryong, in Corea del Nord, dove vanno a sciare Kim e i suoi fratelli, il posto più esclusivo (sic!) del mondo».

Michael Spavour non è un pazzo e nemmeno un millantatore: cittadino canadese, vive a Yanji, nel nord della Cina, e da lì va e viene dalla Repubblica Popolare Democratica di Korea, il nome ufficiale con il quale i coreani del Nord chiamano il loro Paese, dove ha vissuto per un anno. Chissà come e chissà perché, Michael ha contatti diretti con il regime. Addirittura con il “maresciallo”, l’attuale dittatore Kim Jong-un. Basta farsi un giro sui social per vederlo abbracciato a Kim, scherzare e ballare con lui, e scoprire che è stato lui, nel 2013, a organizzare entrambe le controverse visite di Denis Rodman, star della Nba, nel “regno del terrore”. Visite che sono costate al cestista una denuncia penale nel suo Paese per aver violato le sanzioni contro l’ultimo “Stato canaglia”.

Ed è con Michael che arriviamo, dopo il viaggio in aereo fino a Pyongyang, a Masik Ryong, 1.300 metri di altitudine, non lontano dalla costa Est del Paese. Dalla capitale a Masik Ryong andiamo in macchina: sono meno di 200 chilometri ma ci vogliono più di quattro ore ed è un trasferimento un po’ turbolento per via della strada (ma per i vip c’è l’elicottero, dice la nostra guida).

Il luogo è incantato e imbiancato, non c’è il rumore di molte località montane europee. Il resort in cemento su più piani è a valle: tutto attorno, le seggiovie. E, a proposito di embargo, c’è molto made in Europe negli impianti, dai quali sono stati raschiati nome di fabbrica e matricola (come si fa per le pistole). Alcuni sono di provenienza svedese e austriaca (Doppelmayr) e anche i piloni assomigliano molto a quelli della Leitner, azienda altoatesina che ha una filiale in Cina. Ed è dalla Cina - che non applica le sanzioni - che arrivano le motoslitte canadesi della Skidoo. Tutta l’impeccabile attrezzatura sportiva è invece rigorosamente italiana: sci e scarponi Nordica, caschi Boeri, maschere Swan...

Nel settore noleggio dell’albergo ci sono decine di addetti che non parlano una parola di inglese. Nella settimana in cui siamo andati noi c’era solo il nostro gruppo (3 italiani, due americani e un canadese) e quattro tedeschi. Dieci persone in tutto. Per nove piste, perfettamente tracciate e innevate e con pendenze anche del 30 per cento, tre delle quali lasciate appositamente non battute per la gioia di quanti amano la neve fresca.

Un lusso sfrenato, così come notevole è lo sfarzo dell’albergo. Centoventi stanze enormi, rifinite con materiali pregiati e con acqua calda 24 ore su 24 (un benefit non da poco, in questo Paese), più un ristorante elegante e una zona relax con piscina, sauna, bagno turco, vasca Jacuzzi con tanto di cascata, sale biliardo, tavolini da gioco, sala da ballo e karaoke. Tutto desolatamente deserto. C’è perfino internet, 24 su ore 24, anche se la connessione è lentissima e costosissima: 8 dollari al minuto.

Secondo le fonti ufficiali, tutto il resort e gli impianti sarebbero costati allo Stato l’equivalente di 25,5 milioni di euro e ospiterebbero circa 5.000 turisti l’anno, ma non sono dati verificabili. Neanche le guide ne parlano: ripetono continuamente che il comprensorio è stato fortemente voluto dal maresciallo. Il quale, avendo studiato (sotto falso nome) per alcuni anni in Svizzera, assieme al fratello maggiore e a suo tempo erede designato Kim Jong Chul, oltre a essere appassionato di basket e di cartoni della Disney, scia molto bene. Michael Spavour, che l’ha più volte incontrato di persona, conferma che viene qui regolarmente e indica la seggiovia, l’unica con i sedili rosso fiammante, dove in effetti il leader è stato visto e fotografato.

Ma a parte Kim e suo fratello - escluso dalla successione per la sua indole troppo pacifista (pare sia un appassionato di rock e del chitarrista Clapton, ai cui concerti è stato spesso riconosciuto) - a Masik Ryong i nordcoreani non si vedono. «I pochi cittadini della Repubblica Popolare Democratica che si possono permettere una settimana bianca, vanno all’estero», spiega un dipendente dell’albergo che sa molte cose, forse un po’ troppe per essere un semplice impiegato. «Piuttosto, qui miriamo alla clientela straniera», aggiunge. Questo posto è bellissimo: con un’adeguata promozione potrebbe essere il modo migliore per rilanciare l’immagine del nostro Paese, che non è quella di un popolo sfinito e di un governo minaccioso e aggressivo, ma di una grande nazione che rivendica il diritto di esistere e di essere rispettata. E di un popolo che vuole essere riunito».
Decisamente questo signor Kim (non dice altro sulla sua identità, il che non aiuta, visto che qui il cognome Kim è abbastanza diffuso) non è un dipendente qualsiasi. È qui per controllarci, assieme alle due guide (anche loro dicono di chiamarsi Kim) che ci hanno assegnato fin dal nostro arrivo.

Ma i vari Kim vogliono anche promuovere il loro Paese, che in effetti - almeno per quel che ci è stato dato vedere - non è poi messo così male. L’economia, pur in assenza di statistiche verificabili, è in netta ripresa: Pyongyang oggi è un cantiere a cielo aperto. Anche la gente, almeno nella capitale, sembra più rilassata rispetto a pochi anni fa: veste con più colori (soprattutto le donne) cammina più lentamente e non ha problemi a incrociare lo sguardo con lo straniero. Talvolta persino ad accettare una piccola conversazione.

È gente riservata ma incuriosita. Non sembra impaurita e tantomeno aggressiva. Gente che si sente ancora in guerra, vittima dell’arroganza degli Usa e del Giappone, Paesi che non vogliono accettare il diritto all’esistenza della Corea del Nord firmando un trattato di pace. È possibile che molti, pur di avere riconosciuto questo diritto, siano pronti a seguire il loro giovane dittatore ovunque egli decida di portarli.

Chissà se anche questo popolo, parte di una delle nazioni più antiche ancora divise, troverà presto serenità e un po’ di benessere. Ma una cosa è certa: vuoi per l’acquisita deterrenza nucleare, vuoi per il diffuso nazionalismo, che si percepisce dappertutto, sarà difficile che questo avvenga solo a condizione che il regime venga spazzato via. Piuttosto, con la “sunshine policy”, la via del dialogo, inaugurata nel 2000 dal presidente sudcoreano e Nobel per la Pace Kim Dae Jung con la sua storica visita a Pyongyang e che è ora di nuovo auspicata dal giovane sindaco di Seongnam, Lee Jae-myung, uno dei candidati alla successione della presidente deposta Park Geung-hye. Abbandonando l’ipocrita e inefficace politica delle sanzioni e intensificando gli scambi sportivi, turistici e culturali. Anche, magari, andando a sciare a Masik Ryong.