
È certo che la prodezza del baritono Luca Salsi rimarrà legata all’impresa che realizzò a New York due anni fa. Scritturato per “Lucia di Lammermoor” di Donizetti, la sera prima della sua esibizione venne contattato per prendere eventualmente il posto di Placido Domingo, indisposto, che lo stesso giorno doveva sostenere la parte baritonale di Don Carlo nell’“Ernani” di Verdi. Il mattino dopo giunse la conferma, al cellulare, di Alvaro, il figlio del grande cantante spagnolo: «Papà proprio non ce la fa ad andare in scena, ti prego, dacci una mano».
Dunque Salsi si recò al Metropolitan, mise i vestiti di Don Carlo nell’“Ernani”, e varcò la soglia del palcoscenico. Risultato? Un grande successo. Ma la sua impresa non finì qui. Un paio d’ore dopo indossò nuovi abiti, questa volta quelli di Lord Enrico Ashton per “Lucia”, e affrontò nuovamente l’esigente pubblico newyorkese. Un trionfo. Due opere nello stesso giorno: con questa impresa da stakanovista del belcanto, Salsi è entrato nel guinnes dei primati. Da quella data sono fioccati gli elogi e i contratti, tant’è che è diventato un po’ il cantante lirico del momento. Sarà quindi fra gli attesi protagonisti di “Aida” di Verdi al Festival di Salisburgo a partire dal 6 agosto, poi in ottobre Scarpia per “Tosca” all’Opera di Roma, e infine il 7 dicembre, per l’apertura della stagione scaligera, nell’“”Andrea Chenier” di Giordano. Diretto dai due Riccardi della bacchetta per antonomasia, Chailly (per Giordano) e Muti (per Verdi), e da Daniele Callegari (per Puccini).
Ci sarebbe da montarsi la testa, eppure questo quarantaduenne di San Secondo Parmense, con la pronuncia arrotondata dalla tipica r moscia, prende tutto con leggerezza. «Pensi che nessuno dei miei genitori era musicista», racconta divertito a L’Espresso. «Sono il primo della famiglia a esserlo. Tutto iniziò quasi per caso. Considerato che ero mancino, pensarono bene di mandarmi a scuola di pianoforte per farmi utilizzare maggiormente la mano destra. Da lì è scoccata la scintilla dell’amore per la grande musica». Spiega d’esser diventato poi cantante grazie ad Adolfo Tanzi del Coro polifonico Pizzetti di Parma. «Prima mi limitavo a fare un po’ di piano bar con gli amici, canticchiando Baglioni e Dalla. Mi ci portò un amico per farmi fare un provino. Tanzi mi mise fra i bassi e mi insegno l’aria “Non più andrai farfallone amoroso” dalle Nozze mozartiane, con cui fui ammesso al conservatorio “Arrigo Boito” di Parma».
Lì fu seguito dal soprano Lucetta Bizzi e si perfezionò con il baritono Carlo Meliciani. Per esordire finalmente nel 1997 con “La scala di seta” di Rossini al Teatro Comunale di Bologna. E arrivare, dopo un’infinità di gavetta nei teatri minori, al grande circo delle stelle: il Metropolitan, la Scala, il Covent Garden, la Los Angeles Opera, la Staatsoper di Berlino, il Liceu di Barcellona, il Maggio musicale fiorentino, il Concertgebouw di Amsterdam, il Real di Madrid, l’Opera di Roma, con i direttori e i registi più importanti.
Certo, al Metropolitan la professionalità dei musicisti e dei collaboratori tecnici, è invidiabile, gli ricordiamo. «Gli americani hanno delle capacità organizzative straordinarie. In Italia abbiamo una tradizione unica riguardo all’opera e specificamente riguardo al suono. Poter godere dell’insieme delle due cose sarebbe il sogno di ogni artista». Intanto, con quest’anno è la terza volta che Salsi partecipa al Festival di Salisburgo. C’è ancora l’atmosfera storica delle grandi occasioni? «È un posto magico, poi per me che sono legato alla tradizione e ne ho molto rispetto, andare in un posto sacro come Salisburgo è il massimo. Pensare che stai cantando dove si sono esibiti tutti i più grandi artisti della storia mi suscita sempre una grande emozione». A Salisburgo interpreterà il ruolo di Amonasro in “Aida”. «Troppo spesso pensato come una figura rude e autoritaria», ci spiega, «in realtà è uno dei personaggi a cui il genio di Busseto ha regalato alcune delle sue più belle melodie. Basti pensare al duetto con Aida nel terzo atto, nel quale il padre, chiedendo un sacrificio estremo ad Aida, espone una frase musicale di estrema bellezza e drammaticità, che racchiude in sé sia l’implorazione alla figlia, sia la tragedia di un intero popolo».
Insomma, Salsi lo rende più ambiguo, lo raffina, invece del cattivaccio cui una certa letteratura belcantista ci ha abituato. «Un’operazione che sto cercando di portare avanti in tutto il mio Verdi. Una battaglia personale ma non troppo, perché alcuni colleghi la stanno condividendo. In parole povere: voglio rivoluzionare le concezioni che si sono sedimentate negli ultimi quarant’anni sull’interpretazione verdiana. Prenda a esempio ancora Amonastro: la sua parte spesso è più che altro gridata, tanto per esibire le proprie capacità di volume. Un deprecabile esibizionismo circense. Io la penso diversamente e credo che il canto verdiano sia sempre nobile, elegante, anche quando si tratta di personaggi un po’ rudi. Che perciò è indispensabile valorizzare sul legato e sulla parola».
Una rivoluzione, ricordava l’insigne musicologo Rodolfo Celletti, iniziata da Arturo Toscanini e che ha avuto fra i suoi continuatori grandi interpreti come Maria Callas ed Herbert von Karajan. Il sovvertimento di valutazioni storiche, di repertorio, di tecnica, di gusto interpretativo messo in moto da questi sommi artisti ai quali Salsi si ispira è una rivoluzione musicologica ancor più che vocale. Punto di partenza, il ripristino di un’emissione pre-verista che apra la strada ad alcuni risultati fondamentali: il ristabilimento d’un fraseggio vario, analitico, teso, attraverso gradazioni d’accento e di colori, non soltanto a realizzare i segni d’espressione dei compositori, ma a dare al significato delle parole il maggior risalto psicologico, attraverso un gioco sottilissimo di contrasti chiaroscurali e di sfumature - e questo sia che si tratti d’un recitativo che di un’aria o un duetto. La riproposta di un cantabile eseguito con morbidezza di suono, purezza di legato, continuità di cavata, abbandono patetico (o elegiaco), intensità di effusione lirica. E per conseguenza il ritorno al vero virtuosismo, che consiste nel dare espressione alla coloratura e a rivelarne quelli che Rossini definiva come gli “accenti nascosti”.
Ma proseguiamo la nostra chiacchierata con Salsi: è importante essere nati a Parma per capire bene Verdi? «Sta dicendo una cosa che è interessante e vera. Sicuramente si è influenzati. Da quando mi ricordo e ho cominciato a studiare per diventare un cantante, frequentando questo ambiente, andando in giro per la città, continuamente ho sentito fischiettare le melodie verdiane dalla gente in bicicletta e a passeggio. Ci sono poi mille luoghi di culto, mille circoli che protraggono quella memoria. Insomma, una “cultura verdiana”, se vogliamo chiamarla così, che è ancora vivissima e bene o male ti influenza». Anche nei personaggi di Verdi c’è qualcosa di intrinsecamente “parmigiano”. «Ancor di più oserei dire emiliano. Abbiamo questi caratteri un po’ irruenti, forti, irascibili, in definitiva orsi. Però poi ci spegniamo anche velocemente, nel senso che le cose nell’arco di un’ora ci passano via. Suppongo che anche Verdi fosse così».
Simile complessità psicologica che empaticamente ha immesso in Amonastro, la porterà nel personaggio di Scarpia il 14 ottobre all’Opera di Roma per la “Tosca” pucciniana? «Un ruolo nuovo per me. Ma ho già le idee molto chiare, conoscendo l’opera alla perfezione: ne avrò ascoltate di Tosche non so quante dal vivo, in vita mia! E in disco ne ho almeno una trentina di edizioni». Lo Scarpia di Karajan l’avrà interessata sicuramente. «Senza ombra di dubbio. Scarpia vi è un uomo raffinato, un rappresentante dell’ancien régime... Non è mai grezzo, rude. Forse negli atteggiamenti, ma non nel canto». Ruggero Raimondi le piaceva in quel ruolo? «È un grandissimo artista. Il mio cantante preferito nella parte rimane però Ettore Bastianini, e purtroppo l’ha interpretata solo una volta in disco e neanche in maniera ufficiale, in un’incisione dal vivo avvenuta a Bruxelles del 1952. E lì, nonostante che questo cantante non mi entusiasmi sempre a livello tecnico, ha una voce meravigliosa. Ricordo la nobiltà del suono, il fraseggio e i colori, i pianissimi. Insomma: canta piano quando c’è da cantare piano e forte quando si deve. Anche Carlo Tagliabue è stato un grandissimo Scarpia».
Per il personaggio di Gerard, con il quale inaugurerà la Scala con “Andrea Chenier”, i problemi interpretativi non mancheranno. Ma con Chailly, che è un grande direttore mahleriano, non incorrerà certo nelle insidie del verismo. Probabilmente il suo sarà un Gerard ambiguo, tormentato, decadente. «L’ho già fatto a Monaco di Baviera quest’anno e ho seguito questa linea. Tagliabue è ancora una volta il punto di riferimento, con quel suo suono sempre bello. L’importante è non gridare mai, non cantare soltanto per far sentire la propria voce. Prima di tutto bisogna dare un’emozione a coloro che ti stanno ascoltando». “Il suono sempre bello”, un’espressione che ricorda un po’ il Wagner di Karajan. «Questo deve essere fatto anche in Verdi. Il pericolo altrimenti è che ci prendano in giro, all’estero, i grandi fans dei compositori tedeschi. “Ah voi italiani”, talvolta ci scherniscono, “col vostro “Zum-pa-pà”». E quando arriverà per lei il momento di Falstaff ? «Un appuntamento irrinunciabile. Ne ho in mente uno diverso da quello che siamo abituati a sentire. Attualmente ci sono già grandissimi interpreti, Ambrogio Maestri a esempio. Ma io ne vorrei fare uno che diventa ridicolo nella sua serietà: lui ci crede talmente tanto in quel che dice, da apparire proprio per questo buffo agli occhi degli altri».
L’amore per la lirica di Salsi è tale che anche i suoi figli hanno due nomi che sono altrettanti omaggi a quel mondo: Ettore, di undici anni, a Bastianini. E Carlo, di otto, per ricordare Tagliabue. «A mio modo di vedere i più grandi baritoni del Novecento. Sono un grande appassionato delle voci della grande scuola italiana. Per quanto riguarda i miei preferiti in assoluto, parto da Aureliano Pertile, come tenore, e arrivo a Carlo Tagliabue e Aldo Protti. Senza dimenticare il mio adorato maestro Carlo Meliciani, allievo di Tagliabue».
Sta crescendo la moda dell’opera in forma di concerto. Gli chiediamo cosa ne pensa, rispetto alle consuete messe in scena in costume. «Ci sono grandi differenze. Io trovo più difficile cantare nella prima maniera. Perché sei nudo con la tua voce davanti al pubblico e al direttore. Mentre a volte, in teatro, può capitare che salti qualche passaggio, ti risparmi, grazie a esempio agli interventi del coro. Invece nell’altro caso non puoi sbagliare niente: ma è comunque un’esperienza interessante. In questa maniera uno si concentra sull’aspetto esecutivo e musicale».E per quanto riguarda le regie, lei è un innovativo? «Tendenzialmente sono un tradizionalista. Però l’ultima regia di Damiano Michieletto per “Rigoletto” ad Amsterdam, che era tutto meno che conservatrice, ambientata com’era in un manicomio, l’ho trovata bellissima. Insomma, sono d’accordo con le regie moderne quando non vanno né contro la musica né contro quello che io sto cantando.
In definitiva, quando rispettano la partitura e fanno un discorso compiuto». Consigli per i giovani colleghi che stanno diventando famosi come lo è lei? «Il principale è quello di non dare adito a polemiche sterili che poi non portano a niente, quindi di concentrarsi solo sul canto. Lo studio è la cosa più importante, che non bisogna mai perdere di vista. Io tuttora, quando sono a casa, vado subito dal mio maestro. Perché il palcoscenico logora un po’, ti porta difetti. È quindi importantissimo avere un orecchio esterno che ti rimetta a posto, anche quando sei arrivato ad alti livelli».
Il tennis è l’altra sua grande passione. «La prima cosa che faccio quando arrivo in un posto è chiedere dove è il campo da tennis più vicino. E se c’è qualcuno con cui giocare». Chi è il Federer dei tenori? Il suo amico Francesco Meli? «Senz’altro lui è fra i principali candidati. Fra questi ci metterei anche Roberto Aronica».