Dopo anni di crescita il Paese sta affrontando una crisi devastante: persino le cipolle una volta cibo popolare sono diventate carissime e introvabili. Per questo il leader teme sia finito il suo tempo al potere

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Nelle strade di Istanbul da qualche mese si aggirano più gatti del solito. Quasi ogni turco finora ne possedeva almeno uno in casa ma ora è diventato un lusso avere sul divano l’animale preferito anche da Maometto. «I prezzi del cibo per animali sono triplicati. Come il cibo per noi umani, visto che le cipolle e le patate ormai costano come i gioielli. Dal mio gatto peloso comunque non mi separerò mai non solo per affetto ma per il calore che mi dà. Mi scalda al posto dei termosifoni, visto che il prezzo del gas è aumentato del 30 per cento»: così ironizza Zeynep, nome di fantasia di un’ insegnante quarantenne.

La richiesta di non rivelarne il vero nome è dovuta alla deriva dispotica del presidente Erdogan: dopo il fallito golpe del 2016, il Sultano ha spinto la magistratura a far rinchiudere in carcere con l’accusa di terrorismo anche centinaia di docenti. Molti cervelli intanto sono già fuggiti all’estero, scoraggiati dall’inflazione al 21 per cento, dalla disoccupazione in crescita, dai salari bloccati e dal giro di vite sui programmi scolastici. Dall’anno prossimo nelle scuole turche non si insegnerà più la teoria di Darwin ritenuta dal presidente fuorviante ed empia.

Anche la professoressa Zeynep vorrebbe andarsene dal Paese e per questo il padre ha messo in vendita le ultime proprietà, il cui valore però scende di giorno in giorno per effetto della crisi. Intanto vive in un piccolo appartamento mal riscaldato sulla sponda europea del Bosforo. Di famiglia un tempo benestante, è l’esempio perfetto di quella borghesia cittadina di formazione europea, laica e repubblicana, impoveritasi mano a mano che in questi ultimi 16 anni Erdogan consolidava il proprio potere grazie ai voti ottenuti dalle comunità rurali di stretta osservanza musulmana e dai piccoli imprenditori dell’Anatolia. In cambio ha dato loro infrastrutture, crediti e, quindi, lavoro.

Ma ora anche coloro che ne hanno goduto, direttamente o indirettamente, soffrono per il collasso della lira turca, l’inflazione monstre e la frenata economica seguita alla fuga degli investitori stranieri spaventati dall’onnipotenza del reis. «Mi domando se alle elezioni amministrative di marzo la gente voterà ancora per i candidati del partito di Erdogan», dice un’amica di Zeynep affetta da una patologia che richiede una terapia farmacologica. Qualche giorno fa il farmacista di fiducia le ha spiegato che per effetto dell’inflazione le aziende turche potrebbero a breve non avere più i soldi per acquistare dall’estero le materie base per produrre alcuni medicinali.

Non è stato un Capodanno spensierato dunque quello del Sultano, nonostante sulla sua tavola abbondassero le cipolle diventate oggetto di sarcasmo sui social dove compaiono meme dell’ingrediente base della cucina turca in bikini con didascalie come “la più desiderabile”, o in versione dono di fidanzamento al posto del classico anello con diamante. È l’amara reazione dei tanti millenial turchi che usano il sarcasmo via social anziché protestare nelle strade per timore di finire vittime delle purghe di Stato, come accaduto ai tanti giovani che furono protagonisti della rivolta popolare di Gezi park nel giugno del 2013 conclusasi con otto morti a causa della repressione violenta della polizia. Dopo le minacce di Beirat Albayrak, ministro dell’Economia e del Tesoro nonché genero di Erdogan, anche il capo dello Stato è intervenuto pubblicamente sulla “guerra degli ortaggi”.

Anziché spiegare al paese per quale motivo ha tentato per mesi di impedire alla Banca Centrale di alzare i tassi d’interesse, alimentando la sfiducia dei mercati e degli investitori, questa volta ha incolpato oltre ai soliti “cospiratori stranieri” anche lo zoccolo duro del proprio elettorato. Prima di scatenare la polizia alla ricerca del tesoro biologico, ha promesso ai coltivatori punizioni esemplari alla sua maniera: carcere ed esproprio, come se fossero terroristi.

Preoccupato dalla crescente frustrazione della gente, il signore e padrone della Turchia nei suoi ultimi comizi ha messo in guardia «coloro che spingono le persone a emulare i giubbotti gialli francesi», riferendosi alle affermazioni dei sindacati.

Marc Pierini, ex ambasciatore dell’Unione Europea in Turchia, in un saggio per Carnegie Europe, ha scritto che la crisi economica turca ha radici profonde e dare la colpa ai dazi sull’export di alluminio e acciaio imposti recentemente da Donald Trump ad Ankara è fumo mediatico. «Il problema è che la Turchia ha un deficit strutturale e per questo ha bisogno di prendere soldi in prestito per il fabbisogno quotidiano e di investimenti stranieri sul lungo termine. Il partito della Giustizia e Sviluppo (Akp, fondato da Erdogan, ndr) nei primi anni di governo ha gestito abbastanza bene questi fondamentali facendo crescere il paese. Ma questa gestione corretta è diventata incompatibile con l’aumento della pressione dirigista e dispotica del presidente». Secondo Pierini i paesi autocratici, le cosiddette “democrature”, possono sopravvivere alla scomparsa del principio di legalità solo se sono seduti su giacimenti di gas e petrolio. La Turchia però non ha né l’uno né l’altro: la sua sopravvivenza economica dipende dall’export e da un cospicuo prestito estero. Pierini sostiene inoltre che «il desiderio di Erdogan di creare una classe di imprenditori islamici ha distorto la logica degli appalti pubblici».

Nonostante le prime avvisaglie della tempesta economica, Erdogan però è riuscito a vincere una seconda volta le elezioni presidenziali nel giugno scorso. Una vittoria che gli ha permesso di traghettare la repubblica turca dal sistema parlamentare a quello presidenziale, consegnandogli di fatto tutti i poteri dello Stato.

«Ora bisognerà vedere se il suo candidato vincerà le municipali di Istanbul il prossimo anno. “Dove va Istanbul va il paese”, si dice, e siccome Erdogan ha iniziato a scalare la vetta del potere con l’elezione a sindaco della città nel 1994, la sconfitta del suo rappresentante proprio lì potrebbe decretare anche l’inizio della sua discesa», spiega da Berlino Can Dundar, l’ex direttore del quotidiano Cumhuriyet.

Diventato noto in tutto il mondo per lo scoop sul trasferimento di armi da parte dei servizi segreti turchi ai jihadisti che combattono in Siria contro Assad, Dundar è stato incarcerato a lungo preventivamente e quindi condannato in appello a cinque anni per rivelazione di segreti di stato e in seguito accusato di terrorismo. Dopo aver subito un tentato omicidio da parte di un nazionalista sostenitore di Erdogan, mentre si trovava in Germania per un convegno, ha deciso di rimanervi avendo saputo che su di lui era stata aperta un’altra inchiesta e spiccato un ordine di arresto per terrorismo. «Sarei tornato a casa se la magistratura turca fosse indipendente, ma non lo è più. Pensi che non vedo mia moglie da tre anni perché è tenuta in ostaggio dallo Stato», dice. A lei, Dilek Dundar, è stato ritirato il passaporto senza alcuna spiegazione mentre era in aeroporto per andare a raggiungere il marito. Da allora non le è più stato restituito pur non essendo accusata di alcun reato.

Anche Mehmet Altan - intellettuale e insigne economista, già docente alla Sorbonne - non può lasciare il paese intrappolato da una vicenda giudiziaria kafkiana, simbolo dello svuotamento democratico turco. Assieme al fratello Ahmet, uno dei più amati romanzieri a livello internazionale, è finito in carcere l’anno scorso. Per il loro rilascio si erano mossi i più autorevoli nomi della cultura mondiale con un’appello alle autorità turche, cioè a Erdogan. Ma non c’è stata risposta. «Il nostro fascicolo è stato esaminato da quattro diversi tribunali. Uno di questi è la Corte Costituzionale il cui parere ha carattere vincolante per tutte le altre istituzioni. Questa ha stabilito che non saremmo nemmeno potuti venire arrestati». Tuttavia il 26° Tribunale Penale di Istanbul ha condannato i due fratelli all’ergastolo senza condizionale per tentata organizzazione di colpo di stato usando la forza e la violenza.

«Mio fratello è in carcere mentre io sono libero e al tempo stesso condannato all’ergastolo senza libertà condizionale. Una cosa folle. A questo punto siamo in attesa del giudizio della Cassazione, a cui ci siamo appellati. Non so quando avremo il responso perché ormai qui tutto dipende dal clima politico», spiega Altan.

Disponibile a rivestire i panni del professore di economia dice: «Per diventare ricca una nazione ha bisogno di un livello di sviluppo strutturale che consenta la produzione di beni ad alto valore aggiunto. La quota di prodotti ad alta tecnologia all’interno delle esportazioni turche è però solo del 3 per cento. Nel 2018, il valore delle esportazioni per chilogrammo era di 1,36 dollari mentre nei paesi sviluppati è di circa 5 dollari.Ciò significa che la Turchia produce beni di basso valore e pertanto deve importarne di alto valore. Ad esempio, la Turchia importa un chilogrammo di computer al prezzo di 600 dollari e un chilogrammo di smartphone al prezzo di duemila dollari. Ha quindi bisogno di esportare una tonnellata dei suoi beni elettrici ed elettronici per essere in grado di pagare un solo computer e un solo smartphone».

Il debito attuale della Turchia è di 457 miliardi di dollari. Il denaro preso in prestito a basso tasso d’interesse dal mercato mondiale però non è stato distribuito in modo appropriato. Il settore che nell’era Erdogan ha plasmato il Paese è quello delle costruzioni. I soldi spesi in questo settore negli ultimi sette anni ammontano a 551 miliardi di dollari.«A frenare la crescita sono state anche le pressioni politiche che hanno sostituito le regole del diritto e della macroeconomica. Oggi erogare prestiti alla Turchia sta diventando sempre più rischioso», conclude Altan.

La Turchia è entrata nel nuovo anno con il tasso di cambio con il dollaro a 5,36 rispetto al 3,76 del gennaio 2018. Il tasso di crescita è sceso dal 7 per cento nel primo trimestre del 2018 all’1,6 per cento nel terzo trimestre. Se dal novembre scorso le casse dello stato sono un po’ meno vuote e l’inflazione non si è ulteriormente alzata lo si deve solo alla diminuzione delle importazioni.

Assieme al prezzo del gas intanto è aumentato del 113 per cento anche quello dell’energia elettrica, ma il salario minimo è rimasto a 1.603 lire turche, circa 265 euro. Non sarà un anno facile il 2019 per Ankara: subito dopo un periodo di stagflazione arriverà la cosiddetta slumpflation, cioè la recessione inflazionistica. L’agenzia Fitch ha infatti declassato il rating della Turchia a “BB” e a ottobre ne ha classificato l’outlook come “negativo”.

A peggiorare le sorti dell’economia contribuiscono le ingenti spese militari per finanziare l’Esercito Libero Siriano e per portare avanti la campagna contro i curdi oltre confine, nella fascia nord orientale della Siria.