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26 dicembre, 2019

Cosa sarà dopo l'anno dei due Giuseppi

MATTARELLA_WEB
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Una politica che si occupa di cercare il consenso immediato. E di fare patti di potere. Ma fuori di lì c'è altro. Quello che Mattarella chiama «La grande alleanza tra le qualità». Ed è questa la speranza per il 2020

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Gli abiti scuri, le alte divise, i vuoti. C’erano tutti, o quasi, i rappresentanti dello Stato nel parterre del salone dei Corazzieri al Quirinale che fa da sfondo ai tradizionali saluti del presidente della Repubblica prima di Natale. Mario Draghi, il ritorno che ha più fatto discutere, e il vincitore del 2019, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Visto da lontano, con la pochette quasi fosforescente, un faro acceso nella notte, ipnotica. Visto da vicino, il cuore di ogni capannello, l’ultimo a lasciare il Palazzo, come era Silvio Berlusconi un tempo nello stesso tipo di occasione, inclusa la piacioneria, escluse le barzellette e Gianni Letta, neppure Rocco Casalino c’era.

Per sintonizzarsi con l’esterno del Palazzo, come sempre in questi anni, bisognava ascoltare le parole di Sergio Mattarella. La realtà di un paese in stato di «prolungata debolezza economica», con il lavoro «sottopagato o precario», con «gravi fenomeni di disgregazione sociale». Con «la ferita dell’emigrazione forzata di tanti giovani» cui abbiamo pensato di dedicare la nostra copertina di Natale. I loro volti, le loro storie, le loro cartoline all’Italia che si prepara alle feste di Natale, le ultime del primo ventennio del secolo, con un misto di timore e di speranza. L’invito di Mattarella a «andare più lontano e più in alto», una citazione di Aldo Moro, il maestro perduto, il punto di riferimento suo e del fratello Piersanti ucciso quarant’anni fa dal più efferato delitto politico-mafioso rimasto impunito, come racconta Lirio Abbate. Mattarella non cita mai a cuor leggero Moro. Se lo fa è perché sente il bisogno di ribadire «la comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo». Quelle che sono necessarie, quelle che si è faticato ad affermare, in questo 2019 di fatica per la democrazia, in Italia e nel mondo.

?Per l’Italia è stato politicamente l’anno dei due Giuseppi, il Conte uno e il Conte due, e l’anno dei due Mattei, Salvini e Renzi. Prima paralleli, quando il primo decise in modo ancora oggi misterioso e suicida di muovere una situazione in cui aveva tutto da guadagnare per far cadere il governo di cui faceva parte senza avere un piano di riserva e quando il secondo ne approfittò per rovesciare quanto aveva affermato fino a poche ore prima e dare il via libera al governo con il Pd e il Movimento 5 Stelle, oggi convergenti nel desiderio di smuovere la situazione, ma di convergenza parallela, come si addice alle alchimie della politica italiana, e dunque a distanza, e senza fidarsi troppo uno dell’altro, e come potrebbe essere altrimenti, guardinghi, sospettosi, degli altri e forse anche di sé.

Per l’Occidente e per l’Europa il 2019 doveva essere l’anno del trionfo del populismo ed è stato invece l’anno della sua sconfitta. Il mancato assalto alle istituzioni europee, con il voto di maggio, la tenuta delle forze tradizionali e l’exploit dei verdi nei paesi dell’Europa continentale. E la sconfitta del più forte partito sovranista d’Occidente, come si sarebbe detto una volta, la Lega di Salvini, che aveva trionfato nel voto del 26 maggio e nel giro di due mesi si è ritrovata isolata a Bruxelles e fuori dal governo a Roma.

Lo stesso è avvenuto in Austria, dopo il clamoroso scandalo del filmato spuntato a sorpresa, guest star il Salvini locale Heinz-Christian Strache, ubriaco di potere e accodato ai russi. Per l’Italia l’anno si era aperto del resto con l’inchiesta più importante del 2019, e non solo, il Russiagate esploso a febbraio con la pubblicazione sull’Espresso a firma di Giovanni Tizian e di Stefano Vergine della conversazione dell’hotel Metropol a Mosca tra il leghista Gianluca Savoini e gli uomini di Vladimir Putin, avvenuta nell’ottobre 2018 mentre il ministro dell’Interno si trovava nella capitale russa, essendosi scomodato a volare fin lì per un intervento di venti minuti in un insignificante convegno organizzato da Confindustria Russia. L’avvio di una trattativa per un mega-finanziamento alla campagna elettorale della Lega per le elezioni europee, con un preambolo tutto politico formulato dal solerte Savoini, mica Henry Kissinger: «La Lega costruirà una nuova Italia per una nuova Europa amica della Russia».

La rivelazione del mercanteggiamento, ribadito in seguito dal sito americano BuzzFeed, arrivò nel momento sbagliato, mentre Salvini provava a cambiare pelle, abbandonare il gruppo degli impresentabili del sovranismo, da Marine Le Pen ai tedeschi di Afd, per rivestirsi di moderatismo. È stata sull’impossibilità di questa trasformazione che si è giocata la parabola di Salvini nella crisi di agosto, per ragioni internazionali prima che interne.

La sconfitta dei populismi, però, non significa sconfitta della destra. Anzi, il 2020 con il prequel delle elezioni inglesi del 12 novembre, rischia di essere l’anno del suo trionfo, come scrivono Massimo Cacciari, Antonio Funiciello, Alberto Flores d’Arcais, Sergio Luzzatto.

Una nuova destra, però, un populismo addomesticato che abbandona il sogno della spallata alla finanza, all’establishment, e cerca le condizioni di una nuova e più compiuta alleanza. Il populismo 2016-2019 si è gonfiato di voti con le parole d’ordine della sicurezza, ma anche dell’ostilità ai poteri centrali e in particolare ai contrappesi che fanno da argine a quei governanti accecati dalla tentazione di straripare: la magistratura, la pubblica amministrazione, le tecnostrutture indipendenti dall’esecutivo, la società civile organizzata, la libera stampa. Il filo che ha tenuto insieme il trumpismo con le sue tensioni con le strutture di Washington e i sovranisti del vecchio continente, ostili all’Europa. L’ondata d’urto è stata violenta, ma il sistema ha tenuto. Ora è il momento di costruire un nuovo patto tra i leader e i partiti populisti, una presenza inevitabile ma da sola non vincente, e una parte di establishment disposta all’accordo.

È questo il quadro che fa da sfondo all’uscita di Salvini sul comitato di unità nazionale e del suo numero due Giancarlo Giorgetti, disposto a partecipare con gli altri partiti a un governo del tutti dentro guidato dal disoccupato di lusso della politica mondiale Mario Draghi (La Stampa, 15 dicembre).

È il nuovo vestito moderato della Lega, anticipato dalla benedizione ecclesiastica del cardinale Camillo Ruini e sottolineato dalla crescita contemporanea di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, pronta a riempire lo spazio della destra più estrema. Di fronte a questo scenario restano pochi margini per i partiti centristi: crollano Ciudadanos in Spagna, i LibDem nel Regno Unito, non decolla la candidatura Bloomberg negli Usa. In Italia l’ex uomo delle primarie e del voto maggioritario Renzi lavora per una disastrosa legge proporzionale con sbarramento esiguo. «Non credo che si andrà a votare. Si farà la legge di Bilancio e poi l’Ilva e poi andremo avanti...». Nelle ore dell’approvazione della legge di Bilancio al Senato Renzi a Palazzo Madama prevedeva un cammino per il governo Conte che la scaramanzia e i precedenti fanno esitare a definire sereno. Perché ora a Renzi serve tempo, prima del voto, e forse anche a Salvini. L’inutile referendum sul taglio dei parlamentari è un capitolo di questo equilibrio del terrore tra forze politiche con molti seggi e poco elettorato, come il Movimento 5 Stelle, a somma zero. Si prepara una Prima Repubblica senza i partiti della Prima Repubblica, in cui ogni piccola formazione con il suo capetto di turno possa esercitare e riscuotere una rendita di posizione.
Sono manovre di Palazzo romano, ma esprimono una tendenza globale rispetto al quale l’unica certezza è lo spiazzamento della sinistra, che rischia di finire fuori gioco anche in Italia, nonostante la sua presenza al governo. Dentro il gioco, nelle tattiche parlamentari, fuori gioco nella società, dove è più necessaria, un triste e solitario destino.

Fuori, per usare ancora le parole di Mattarella, ci sono le energie nuove, le domande di tanti giovani che chiedono di far valere “il loro diritto al futuro”. Il pensiero va a Hong Kong, ai ragazzi di Greta, ma anche alle Sardine. Andare più in alto e più lontano significa uscire dalle logiche di consenso immediate, ovvero senza mediazioni e istantanee. Rispetto ai giochi politicisti più che politici, ai patti di potere che pensano di prevedere tutto e non incrociano nulla, c’è «la grande alleanza tra le qualità» di cui ha parlato il presidente della Repubblica. Nascoste, sottoutilizzate oppure addirittura calpestate. Amministratori locali in trincea, imprenditori, lavoratori, insegnanti, volontari. Oltre i confini nazionali e proiettare verso il futuro, dunque in un’altra dimensione dello spazio e del tempo rispetto alla politica nazionale. Ma ci sono, tenaci, resistenti. Restano una promessa di domani.

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