Sono persone con problemi fisici o mentali. Hanno trovato accoglienza a due ore da New York. Lavorano, si aiutano a vicenda, assistiti da volontari, vivono qui da decenni. Dicono: siamo felici (Foto di Alessandro Cosmelli per L'Espresso)

Nel villaggio steineriano che cura i disabili fabbricando candele

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La strada che porta a Copake taglia le curve tra lievi colline, piccoli boschi e laghetti, è da qui - dopo un paio di cartelli minimali (“svoltare a destra dopo il fienile bianco”, “seguire le indicazioni chiesa”) - che si entra a Camphill Village. Nel cuore della Columbia County, a due ore e mezzo d’auto da New York City, nascosta in mezzo a una campagna lussureggiante e punteggiata da bovini al pascolo, sorge una comunità dove tutto funziona un po’ al contrario rispetto all’ordine stabilito nel mondo che la circonda. Perché a Camphill Copake ogni cosa ruota attorno agli abitanti disabili. Sono loro, con i loro ritmi, le loro esigenze, le loro difficoltà, a dettare i tempi di vita di questa comunità fuori dal comune.

Concepite dalla visione pastorale e umanitaria di Rudolf Steiner (e della sua antroposofia) le “Camphill” nascono negli anni Quaranta nella vecchia Europa come comunità residenziali e scuole che fanno da supporto - per istruzione, occupazione e vita quotidiana - ad adulti e bambini con disabilità dello sviluppo, problemi di salute mentale o altre esigenze particolari. La prima fu in Scozia, fondatore del movimento Karl König, un pediatra ed educatore austriaco che si rifugiò ad Aberdeen per sfuggire all’annessione nazista. Quella di Copake - sorta nel 1961, quando un mondo regolato dalla guerra fredda vedeva il primo disgelo, alla Casa Bianca c’era JFK e in Vaticano il papa buono Giovanni XXIII - è la più “antica” degli Stati Uniti (oggi ce ne sono dieci).
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Per entrarvi occorre essere maggiorenni ed è gestita in modo del tutto autonomo e indipendente. Ci vivono oltre duecento persone, gli adulti disabili sono un centinaio, un’ottantina i volontari (in maggioranza giovani), gestiti in diverse case da un “capofamiglia”, un gruppetto di adolescenti e qualche bambino (figli dei volontari). Una comunità che vive e lavora su 650 acri di terreno, che ha l’aspetto di una vera e propria piccola cittadina rurale, con le sue strade, la chiesa, i negozi, le attività lavorative e ricreative. Un’atmosfera quasi incantata, un’oasi di pace a un paio d’ore dal caos della grande metropoli, una vita legata alla fattoria bio-dinamica, agli orti, al bestiame e a una serie di laboratori artistici.

Christine Pizzuti, che nel villaggio si occupa della comunicazione, ci illustra orgogliosa le varie attività: «Lì c’è la falegnameria, in quell’altro edificio produciamo candele che vendiamo in ogni parte degli Stati Uniti, più avanti c’è il laboratorio per i tessuti, accanto la legatoria, laggiù in fondo la panetteria. E poi c’è il coffee-shop, il più tipico punto di incontro».
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Seduto al tavolino Danny Miller sta sorseggiando un caffè («è italiano, un espresso, lo provi, è buono»). Ha 70 anni, è arrivato al Village nel 1970, poco più che maggiorenne, da allora non si è più mosso. Lavora qui vicino, alla panetteria, ci accompagna a visitarla. Christopher Duffy ha 53 anni e sta preparando gli ingredienti per una serie di pani speciali, dal forno a legna esala un buonissimo profumo. A guidare il team di panettieri - uomini e donne - c’è Sam Freeman, 26 anni. Volontario («no, nessuna paga, viviamo delle cose che produciamo e di quello che riusciamo a vendere»), ha scoperto Camphill in Inghilterra, «ho una famiglia che mi aiuta molto, mio fratello insegna ai bambini autistici, quello che vedo qui mi ispira molto, è il motore per cui sono restato. E non mi pento». La ventina di fornai fanno pane, panini, biscotti, muesli e pasta sia per Camphill che per i mercati degli agricoltori locali. Alcuni dei quali portano i biscotti e la granola del Villaggio fino a New York City.

Danny è uno dei più anziani cittadini del Villaggio. Insieme a un altro Danny (Morse, 74 anni), a Larry Silver (71 anni), ad Alan Rosenzweig (75 anni) sono i decani del posto. Alan è un’istituzione, arrivato a Camphill nel 1966, conosce ogni centimetro del Villaggio, passeggia salutando (ricambiato) tutti. Lo scorso ottobre per il suo compleanno hanno organizzato una grande festa, fra un mese si replica, per quando di anni ne avrà 76. Larry Silver è arrivato ancora prima, nel 1965, («però ho ancora il mio bell’accento del Bronx», dice ridendo), racconta come considerato «il mio fisico robusto, non tutti i lavori fanno per me, però alla fattoria e con le mucche ci ho provato».

Larry è un po’ il buontempone della compagnia, si diverte a raccontare storielle, barzellette, «alla fine sono diventato quello che tirava la coda alle mucche». Danny Morse si fa fotografare «con la mia T-Shirt preferita», la porta sopra una camicia a scacchi verde, è nera e ha un bello slogan stampato: “dignità, eguaglianza, finalità”. È quello che è arrivato da più tempo: «Era il 1963, il presidente era John Kennedy, mi ricordo che c’erano solo pochi bungalow, gli edifici che vede oggi li hanno costruiti dopo. Se lavoro ancora? Certo, nel «seed garden, Lo ha visto? Dividiamo tutti i diversi semi, non ha idea di quanti diversi ce ne siano. E poi li vendiamo». Poi c’è Mike Davis, più giovane («ho 62 anni») che lavora con la Estate Crew (la squadra di edili) e in falegnameria e guida il trattore compiaciuto con indosso il suo giaccone da lavoro arancione.

Christine stringe la mano e abbraccia tutti. «Di anziani ce ne sono anche altri, ci sono quelli che fuori hanno una famiglia che viene a trovarli, quelli che ne hanno una un po’ assente, quelli che non hanno nessuno. Alcuni di loro hanno passato l’intera vita qui, del mondo esterno conoscono poco, forse sono felici proprio per questo». Una delle cose che più colpiscono visitando Camphill Copake, parlando con i disabili, è proprio questa: sembrano tutti molto felici.
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Richard Neal, che ha 67 anni, che è il direttore dello sviluppo e anche “artist-in-residence” (è stato a lungo anche all’estero, in Germania) lo conferma. «Io sono arrivato all’inizio degli anni Settanta, come volontario, erano i tempi della guerra del Vietnam, si poteva venire qui facendo il servizio civile. Non me ne sono mai pentito. Sì, è vero, sembrano, e probabilmente sono, tutti felici. Del resto nel mondo “normale” sarebbero degli emarginati, avrebbero un sacco di difficoltà, qui sono loro i normali e noi i diversi». Sono felici o almeno stanno bene, lavorano, fanno amicizia, tra loro ci sono anche belle storie d’amore. Come in tutte le comunità problemi di rapporti ce ne sono, «ma qui quelli che ne creano di più non sono gli abitanti, ma i volontari, soprattutto i più giovani, quelli che restano per un anno o due», aggiunge Christine.

N el Villaggio un ruolo decisivo lo svolgono le donne, sono loro il motore che permette alla comunità di andare avanti. Donne dello staff, donne disabili, donne che gestiscono come “house-leader” diverse case. Lindsay Johnston, ha 48 anni, è un po’ restia, teme di non trovare le parole, poi si racconta: «Io sono cresciuta a New York, mia madre era inglese di Manchester, mio padre veniva dall’Idaho, ho una sorella e un fratello. Mi piace stare qui, faccio amicizia con quelli più giovani. Da quando sono arrivata qui sono una donna felice, fuori tutto mi metteva paura, non volevo mai uscire di casa. Mi piace lavorare, la mattina aiuto in una casa, nel pomeriggio lavoro alla cooperativa, lì dove vendiamo tutto quello che serve alla comunità. Io compio gli anni il 4 marzo, tornate a trovarmi». Susan Freedman di anni ne ha 62 e sono già 42 che vive qui. Lavora tutti i pomeriggi al negozio delle candele, «anche io sono felice, questo è il mio mondo, dei primi venti anni, quando vivevo fuori, preferisco non ricordare nulla».

Andrea Baring cammina avanti e indietro lungo le strade del Village salutando tutti con grande affetto. È arrivata qui da 12 anni: «La mia è una famiglia molto benestante, mio padre e mia madre hanno lavorato nell’industria dello spettacolo in California, ora si sono trasferiti qui vicino, per potermi venire a trovare più spesso. Sono dodici anni che vivo felice, mi piace la gente, mi piacciono le case, mi piace il modo in cui si lavora. Io lavoro la mattina al negozio dei semi, il pomeriggio a quello delle candele. Forse cambierei un po’ il cibo, dovrebbero darci un po’ più di cioccolata».

Finot Salassie, 50 anni, è arrivata più recentemente. Vive nella Argo House dove - racconta la sua “house-leader” - «è diventata subito molto brava a pulire, stirare e usare il forno». La scorsa estate ha preparato e messo in scatola un centinaio di lattine di pelati, al mattino va nella Juniper House per aiutare a preparare le verdure, nel pomeriggio lavora anche lei al Turtle Tree Seed. È di poche parole, ma quando vede un viso amico si scioglie: «Mi piace andare in bicicletta, giocare a carte, mi piacciono gli animali. Quando viene a trovarmi mia sorella la porto a vedere le pecore».

Lungo i tre chilometri quadrati del Villaggio, tra colline, strade sterrate, giardini, orti e piccoli boschi, gli adulti con “bisogni speciali” e i volontari di lungo e breve termine si sforzano ogni giorno per vivere e lavorare insieme “come uguali”, nelle famiglie allargate (tra le otto e le quindici persone) che abitano una dozzina di case. Pranzi e cene in comune, poi ognuno al lavoro che gli spetta, quello per tenere in ordine la casa e quello per la comunità: all’alba a mungere le mucche, a pascolare le pecore, a controllare i maiali, a raccogliere la verdura negli orti, alla falegnameria, ai vari laboratori artigianali. La sera in libertà per trovarsi, divertirsi, organizzare feste di compleanno, balli, canti e suonare musica insieme.
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Sarit e Ilan Ronen sono moglie e marito, hanno tutti e due 54 anni e arrivano da lontano, sia come anni (sono giunti quattro lustri fa) che come luogo (vengono da Israele). Hanno figli grandi ormai autonomi (sono al college) e piccoli che vivono ancora con loro nella Hickory House, la casa della noce (per via degli alberi attorno). «Abbiamo sempre pensato, forse proprio perché veniamo da una realtà unica e complicata come Israele, che nella vita occorre fare qualcosa per il bene degli altri. Lì avevamo aperto asili nei villaggi arabi, ci siamo trasferiti qui temporaneamente per continuare il nostro lavoro, la nostra ricerca e poi abbiamo deciso di restare. I nostri figli sono nati e cresciuti nel Villaggio, pensiamo che anche per loro sia stata una grande esperienza».

Ilan dirige il laboratorio delle candele, che è uno dei fiori all’occhiello del Villaggio, dove il profumo della cera è inebriante: «Le nostre candele sono immerse e modellate a mano con grande cura. Sono biodegradabili e non subiscono alcun trattamento chimico, poiché il nostro laboratorio utilizza solo cera d’api pura al cento per cento. Gli unici altri ingredienti che aggiungiamo sono l’amore, la cura e la devozione».

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