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La famiglia di Neve è originaria di Bergamo, i morti accatastati nelle bare sui mezzi militari sono i suoi morti, ma lei è una donna di montagna, le emozioni le contiene, le modula: «La retorica del lavoro ha pesato per tutta la vita sulle nostre teste, ha pesato sulle decisioni per contenere l’epidemia, e sta pesando sul ritorno alla vita. Ma il re è nudo ormai, e i morti hanno scoperchiato le debolezze e le vanità di questo pezzo d’Italia», dice.
Per tutto il periodo del lockdown suo figlio non è uscito di casa, a Rho, comune a nord ovest di Milano, lei ha continuato a lavorare in orario d’ufficio, dieci-diciotto. Lunghe riunioni, massima concentrazione richiesta. «Sei schiacciata. Vorresti rendere come prima. Ma non ce la fai, sembri un criceto che rincorre il tempo e a ogni giro di ruota ti senti sempre meno all’altezza di quella che eri».
Il primo mese Neve ha rincorso il tempo, faticando a riconoscere la donna che viveva chiusa in casa dalla donna che era prima. Poi ha rallentato, ha attraversato la crisi e ha ridisegnato il suo tempo. Ha ascoltato le conferenze stampa e letto i decreti, visto le interviste e i dibattiti tv, cercato soluzioni. Ma i bonus baby sitter, i congedi di quindici giorni prorogati a metà paga e già finiti per troppi non sono sufficienti, non possono garantire un ritorno al lavoro di entrambi i genitori in una famiglia: «Le decisioni prese finora disegnano un Paese a metà, non un paese di madri».
E l’idea di donna che restituiscono è un vestito passato di moda, che le va stretto.
«Dietro tutti i silenzi dei decreti di questi mesi ci sono milioni di donne, metà del Paese, che è stata frettolosamente rimossa, come tutte le cose trascurate per troppo tempo e su cui non si sanno dare risposte». E se le chiedi chi sia oggi Neve, alla parziale riapertura delle attività produttive, dice di sentirsi una cittadina depotenziata, perché è chiamata a essere produttiva mentre suo figlio piange nell’altra stanza, perché mentre deve avere idee brillanti in un mondo competitivo - più brillante di quella del collega che prima era compagno di open space e ogni è compagno di Zoom e magari non ha figli a cui badare - deve addormentare suo figlio e sfamarlo e sorridergli serena per non gravare, con la sua frustrazione, sullo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino: «Si chiama svantaggio. E l’idea di donna cittadina che è emersa in questi mesi ha un titolo cinico e severo: abbiamo messo al sicuro te e la tua famiglia, vi abbiamo salvato la vita, ora controlla i tuoi figli e la tua casa e non chiedere di più».
Neve ha avuto paura, ancora ne ha. Paura di restare indietro. Paura di guardarsi allo specchio e vedere solo la forza-lavoro. «La morale, avvilente, di questi due mesi è che prima di essere cittadini, prima di essere individui, dobbiamo essere in grado di produrre. Lo Stato ci ha detto: non importa come, ma dal 4 maggio tornate a lavorare». E Neve teme per suo figlio, ma siccome si sente parte di una comunità teme anche per i figli degli altri: «Non conta quanti libri stimolanti io possa leggere a mio figlio perché ho avuto la possibilità di comprarli, conta che tutti possano poterli leggere, che mio figlio sia circondato da diversità e non cresciuto in una scuola privata sanificata con l’ozono mentre gli altri, i meno fortunati, restano al palo».
Il Re è nudo, dice Neve. Ed è così. Nel vuoto dell’epidemia, le fragilità del sistema-Italia si vedono di più. Si vede la debolezza del welfare, la confusione delle priorità politiche. Si vede chiaramente che a pagare il conto - salato - sul lavoro saranno le donne. Le inascoltate. Le non parlanti.
Il Covid-19 ha sconvolto l’agenda politica, mostrato le fragilità del sistema, che c’erano e ora parlano piu’ forte. L’analisi delle politiche pubbliche lo chiama un “focusing event”, un evento inaspettato che, per la natura che ha, forza la politica a concentrarsi su temi e aspetti della vita istituzionale che non sarebbero stati centrali prima. Un evento che forza a stabilire una nuova grammatica del paese, nuove urgenze su antiche necessità. Nuove politiche su decennali negligenze. Resta da stabilire oggi, chi nel gioco dell’oca del Covid-19 rischi di fermarsi un turno o peggio, tornare al punto di partenza.
Negli ultimi due mesi lo Stato è intervenuto (giustamente) sul Sistema Sanitario Nazionale, emanato provvedimenti eccezionali di restrizioni delle libertà individuali, risposto in maniera largamente insufficiente alle necessità economiche di un pezzo produttivo del paese (quello emerso) ma nel perimetro delle soluzioni possibili, di quelle necessarie, non ci sono donne e bambini.
Non abbastanza. Non osservati con le giuste lenti. Quelle che dovrebbero fotografare parità, uguaglianza, diritto allo studio, accessibilità di mezzi.
Rimossi, sospesi - di nuovo - come tutte le domande cui è difficile dare una risposta.
In Italia, secondo recenti dati Istat, l’11,1 per cento delle donne che ha avuto almeno un figlio non ha mai lavorato per prendersi cura della famiglia (la media europea è del 3,7 per cento), dato che nel Mezzogiorno sale a una donna su cinque. Le donne madri lavorano meno delle donne senza figli, perché non ci sono strutture a sufficienza. Perché il welfare è solo familiare.
Nella memoria Istat dello scorso febbraio curata dalla statistica Linda Laura Sabbadini Sabbadini si legge che «nell’anno scolastico 2017-2018 sono attivi in Italia 13.145 servizi educativi per la prima infanzia. I posti disponibili - di cui il 51 per cento pubblici - coprono il 24,7 per cento dei potenziali utenti, bambini con meno di 3 anni». Numero lontano dagli standard europei che nel 2002 con il Consiglio europeo di Barcellona hanno posto il parametro al 33 per cento, come traguardo che avrebbe dovuto essere raggiunto entri il 2010 per dare modo alle donne di conciliare lavoro e famiglia.
Gli accademici che hanno studiato le pandemie del passato, Ebola, Zika, Sars, influenza aviaria hanno ripetutamente segnalato gli effetti duraturi sulle disparità di genere.
Nello studio “Covid-19: gli effetti di genere dell’epidemia», Julia Smith, ricercatrice di politica sanitaria alla Simon Fraser University di Vancouver, Clare Wenham della London School of Economics e Rosemary Morgan della School of Public Healt di Baltimora sostengono che le risposte al Covid non includano l’analisi di genere nonostante prove sostanziali che le disuguaglianze si aggravino dopo le epidemie.
Lo studio sostiene che le epidemie abbiano naturalmente influenzato il reddito di tutta la società ma mentre il reddito degli uomini torna agli standard che aveva prima della diffusione del contagio, le perdite delle paghe femminili non riescono a sanarsi col tempo: «Se c’è qualcosa da imparare dalle epidemie passate come l’Ebola è che le donne avranno più difficoltà a riprendersi da questa recessione economica. Le donne costituiscono la fetta maggiore della forza lavoro precaria e part-time, avevano già minori sicurezze e stabilità prima e quando rinunciano a una porzione del tempo che dedicavano al lavoro non vi è alcuna garanzia che lo riavranno, sia in termini salariali che di durata contrattuale», dice Julia Smith.
Soluzioni facili a problemi complessi non ce ne sono, certo. Ma la politica sembra - una volta ancora - affidarsi al terzo settore o al solo welfare che ha sempre funzionato nel nostro paese: la famiglia. Con i suoi risparmi, le pensioni dei nonni e il loro tempo.
Lorenza Valentini ha quarant’anni e una storia di ordinaria disoccupazione. Laureata, lavori precari fino al contratto a tempo indeterminato in un consorzio che lavora per il Policlinico di Roma. Poi il consorzio perde la commessa e trasferisce i lavoratori presso la sede centrale di Bologna. Chi rifiuta lo spostamento resta a casa, licenziato. Nel frattempo Lorenza, forte del contratto che andava avanti da otto anni, aveva preso un mutuo per la casa, comprato una macchina a rate e fatto due figli con la fecondazione assistita. Così, in meno di un anno, è passata dall’essere una giovane donna con una vita stabile, autonoma e progetti familiari solidamente in divenire, a essere la madre di due gemelli nati prematuri, le rate del mutuo da pagare, ma senza stipendio. Quando è stata licenziata la sua dirigente le ha detto: «Almeno così potrai goderti i tuoi cuccioli».
E lo fa, Lorenza, si gode i suoi cuccioli, li accudisce, ride con loro. Ma oggi dice che non avrebbe affrontato la gravidanza, la fecondazione assistita, la terapia intensiva di due bambini nati prematuri, se avesse saputo di restare zoppa di uno stipendio prima, destinata a non ritrovare lavoro ora, dopo l’epidemia.
I suoi bambini, Raoul e Carlo, hanno due anni, Lorenza e suo marito hanno detto che fuori c’è un brutto raffreddore, per questo non si può uscire: «Certe volte uso l’alibi che sono troppo piccoli per avere strumenti per capire. Ma la verità è che sono io che non ho strumenti. Io non sono la loro insegnante, io sono la madre. Non nasciamo genitori, non nasciamo pedagogisti».
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Questa crisi, come quelle economiche passate, ha esasperato l’idea che laddove non arriva lo Stato ci siano le famiglie. Con la differenza che oggi alle famiglie viene chiesto lo sforzo - e il non scontato desiderio - di essere educatori oltre che figure genitoriali. Il messaggio che arriva è che la scuola sia un edificio riempi-tempo, non un luogo che costruisce identità, sminuendo così gli insegnanti: «Non siamo figure intercambiabili, una madre non è una maestra, per un bambino di tre anni lo schermo di un tablet non può sostituire la socialità. I bambini lo sanno, nei ministeri no».
Lorenza è spesso nervosa, tollera poco i capricci, sa che non può chiudere Lorenza donna in una stanza e far parlare solo Lorenza mamma, che era e resta entrambe le cose. Ma spesso - dice - non riesce a essere come dovrebbe essere una brava mamma.
E come dovrebbe essere, Lorenza, una brava mamma?
«Come quelle della pubblicità, propositive, con case sempre pulite e gioiose. Come l’idea di famiglia nascosta nelle direttive e nelle ordinanze, un’immagine di donna che ci riporta indietro di settant’anni.’ Il messaggio arrivato alle famiglie come quella di Lorenza è stato: l’importante è che stiano in casa, l’importante è che li amiate, le versione istituzionale del “godetevi i vostri cuccioli!». Poco importa se l’idea di welfare data per scontata è un ritorno alle vecchie abitudini delle nonne. Poco importa se le madri siano donne che - incidentalmente o per scelta - sono diventate madri.
«Io sono quella che ero prima, in più ho due figli. E se quando questi bambini diventeranno ragazzi senza aver elaborato il trauma dell’isolamento, la colpa sarà di noi madri, che non siamo state in grado di spiegare, accudire, far capire. Non dello Stato che non ha pensato a loro. Saremo state madri che viziano e proteggono».
E non si può fare altrimenti se lo stato sociale sono i nonni. Lorenza si vergogna a pensarlo, ancor più a dirlo. Ma si è tolta tutto, tutto quello che fondava la sua identità, una nuotata in piscina ogni tanto, le scarpe, un caffè con le amiche e la sua famiglia ora si sostiene anche con la pensione di reversibilità della madre - morta di cancro - che il padre le passa ogni mese. Il welfare all’italiana.
E non ci sono piani chiari per il dopo, ci sono tanti condizionali. «A un certo punto», dice, «tutto tornerà alla normalità, tranne noi madri».
L’educazione dei bambini è sospesa, non sono ancora chiare le modalità di ripartenza, soprattutto la ministra Azzolina parla di soluzioni per le scuole italiane come se ci fosse omogeneità, non solo da Nord a Sud, ma tra il centro città e la periferia. Ma per le famiglie senza strumenti, non solo tecnologici - un computer un tablet o una banale connessione internet - per le famiglie senza competenze e conoscenze, cosa resta se lo stato abdica al suo ruolo educativo?
Nell’asilo dei figli di Lorenza ci sono molti bambini nati in Italia da genitori di origine straniera, in classe sono in trenta e lo scorso inverno la scuola è stata chiusa per una settimana perché c’erano i topi. «Prima di essere un problema di genere è un problema di classe. Ho la sensazione che chi deve decidere non si sia mai trovato nella posizione di dover scegliere se comprare il pesce o un libro ai propri figli», dice Lorenza.
Il fattore economico nel sistema educativo era centrale prima, diventerà discriminante nel dopo epidemia. «Temo che a settembre ci saranno sempre più scuole per ricchi e scuole per tutti gli altri. E che queste disparità saranno tollerate perché considerate inevitabili per gestire la tenuta del sistema scolastico».
Si salvi chi può, e chi può educhi i propri figli in scuole sanificate con classi da quindici persone, pagando rette stellari.
Lorenza avrebbe voluto iscrivere i suoi figli a nuoto, non l’ha fatto perché non può permetterselo. Chiedere sempre regali ai nonni non è la soluzione, spiega.
«Ce la farà chi può. E sarà la nuova forma di noi e loro. Spudorata. La differenza non sarà più tra italiani e non italiani ma tra ricchi e il mare dei nuovi poveri»
Secondo un report dell’Unesco dalla fine di marzo un miliardo e mezzo di studenti hanno interrotto gli studi per la pandemia. In Italia sono dieci milioni, un milione tra asili nido e scuole dell’infanzia, strutture in cui studiare il distanziamento fisico e le classi dimezzate è più difficile.
Il rischio per troppi è la dispersione scolastica, che più che in altre crisi del passato rischia di andare di pari passo all’impoverimento delle famiglie. Smette di studiare chi non ha una famiglia solida, chi non ha mezzi, chi non ha un tablet, o dieci euro per i giga per connettersi a internet.
Smetti perché vivi ai margini, e la scuola già prima della pandemia era una scommessa. Da una parte il riscatto, dall’altra un destino di estrema povertà.
La storia di Rosy è quella di una donna che è facile incontrare allo Zen, acronimo di zona espansione nord, quartiere alla periferia settentrionale di Palermo. Rosy ha quarantasei anni, un matrimonio finito male alle spalle e un nuovo compagno. Quattro figli, due con ogni compagno, è già nonna due volte. Sparsi sul corpo ha sette tatuaggi, sulla spalla destra la scritta Stay Strong ‘pare fatta per affrontare l’epidemia ma qui l’incoraggiamento a essere forte te lo devi fare tutte le mattine’ dice.
Rosy si è sposata la prima a volta a sedici anni, a diciassette era madre. La licenzia media l’ha presa a quarantadue anni alla scuola serale. L’unica figlia femmina ha studiato fino a tredici anni, dopo la licenza media ha lasciato la scuola per aiutare Rosy a badare ai fratelli più piccoli e poi è partita per Manchester in cerca di lavoro. Ha trovato un posto come aiuto cuoca e un fidanzato. Ma è tornata senza lavoro e incinta.
Così oggi vive in casa di Rosy con la bimba di sei mesi e a dividere lo spazio nell’appartamento del padiglione 20 in tutto sono in sei. I figli più piccoli di Rosy hanno 13 e 16 anni, studiano, in quarantena parlano ai loro amici dalla finestra della cucina nel Padiglione 20. Si sente la corrente del vento, tira scirocco, loro guardano fuori, dalla finestra si apre una vista larga sullo Zen.
Allo Zen di Palermo vivono 17 mila persone, ma è impossibile censirle, potrebbero essere il doppio. Tremilaseicento appartamenti, di 40-50 metri quadri, tutte case occupate, spesso a dividere lo spazio un nucleo familiare allargato di sei, sette persone.
«Nei padiglioni se starnutisci il vicino ti sente, e dice “Salute!”. La mattina ci svegliamo e ognuno di noi cerca di trovare lo spazio per stare un po’ solo, ma questo spazio - semplicemente - non c’è.». E i giorni ti obbligano a controllarti e gestire gli scatti d’ira e il senso di colpa.
Perché la povertà è così: ti fa sentire in difetto per qualcosa che non dipende da te, che prima è una difficoltà, poi diventa indigenza e piano piano trasfigura e diventa vergogna.
Essere madre qui significa esercitarsi ogni giorno a non pensare che i tuoi figli resteranno indietro, mentre la povertà avanza a braccetto con un nuovo ostacolo che oggi si chiama epidemia.
Allo Zen non c’è un asilo nido, una donna che decide di avere un figlio mette in conto tre anni in casa, fino a che il figlio non va alla scuola dell’infanzia, se va bene. Se c’è posto.
Solo il 10 per cento degli abitanti del quartiere ha un diploma di scuola secondaria superiore, l’1 per cento una laurea. Il tasso di disoccupazione pre-Covid, secondo Zen Insieme, un’organizzazione radicata sul territorio, superava il 50 per cento. Il 22 per cento delle famiglie vive in condizione di disagio economico.
Alle dieci di mattina di domenica il quartiere è silenzioso, qualche ragazzino gioca nel campo di calcio, parchi qui non ce ne sono. Immondizia sì, parecchia.
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Ester ha sette anni, tre fratelli di cui uno quindicenne uscito da poco da un centro di detenzione minorile e un padre uscito di galera, ma reati minori spiegano i ragazzi di Zen Insieme che la aiutavano nei compiti il pomeriggio fino a un mese fa. Reati minori: furti, «ma rubava per fame, qui sono in tanti a rubare per fame».
Quando Ester sorride si vede una bocca di povertà. Una mappa di carie e denti mozzi.
Dice che le manca la scuola e più di tutto, più dei compagni, le manca fare i compiti. Ester studiava al centro Zen Insieme, fino all’otto marzo, poi lo spazio dedicato ai bambini, al gioco, alla biblioteca, è diventato il deposito di aiuti alimentari.
Dove prima si leggevano le favole oggi si preparano scatoloni di pasta, sugo e tonno in scatola.
Mariangela di Gangi, 35 anni, nei nove anni di lavoro allo Zen ha visto cambiare il quartiere e la sua povertà, prima si occupava del doposcuola, oggi distribuisce cibo e si chiede cosa voglia dire per un bambino che i maestri del doposcuola portino a casa la busta della spesa, se questo non li confonda e indebolisca di più le loro madri: aa una parte genitori che non sono in grado di darti da mangiare, dall’altra i supereroi che arrivano con le merendine.
«Lo Stato ha delegato la gestione della crisi al terzo settore, senza domandarsi che impatto avrebbe avuto sulla dignità delle donne, questo costruisce altri problemi nel medio periodo».
In Sicilia ci sono 831 scuole, 700 mila alunni, secondo la Flc (Federazione Lavoratori della Conoscenza) della Cgil siciliana, nella regione il 44 per cento delle famiglie è sprovvisto di computer. Significa 300 mila studenti senza un device a disposizione. Quando ascolta le interviste della Ministra dell’Istruzione Azzolina, Mariangela si sconforta.
Allo Zen ci sono 3.205 bambini da 0 a 15 anni. Per loro i progetti di classi metà a scuola metà affidate alla didattica a distanza, sono «semplicemente inapplicabili». Perché lo Zen è quello che era, solo amplificato. Un tessuto fatto di madri giovani, non abbastanza scolarizzate, padri che lavorano in nero a giornate se va bene, disoccupati se va male, pregiudicati se va malissimo.
E oggi a famiglie così fragili si chiede di supplire le mancanze di una scuola a metà.
Quando Mariangela alza il telefono per chiamare le madri dei ragazzi che seguiva fino a un mese fa nei compiti pomeridiani, prima le dicono che temono di non avere abbastanza da mangiare, poi le dicono che si sentono sole e soffocate, e poi piangono e dicono che non si sentono all’altezza, perché non sanno cosa e come insegnare ai loro figli, perché magari come Rosi e sua figlia hanno a malapena la licenza media. Madri che si vergognano di non saper fare le addizioni.
E le vedi stendere i panni dalla finestra - stretta - di case che ti schiacciano.
Case che ad ascoltarle bene urlano del nervosismo della reclusione e del colore scuro della preoccupazione.
Salvo ha quattordici anni, da grande vuole fare il politico. Ha tre sorelle più grandi, otto nipoti. Si sveglia alle quattro per fare i compiti, così ha un po’ di silenzio. Le ore di economia gli piacciono, la matematica proprio no. Studia all’agrario: «Così posso andare a zappare la terra», dice con voce che sa di disincanto: «Che dici mi insegnano a zappare la terra su whatsapp?».
Il disincanto si fa riso apro, e mentre cammina verso casa con la mascherina, quattro birre per suo zio chiuse in una borsa di tela di un’associazione antimafia, Salvo si volta e dice «Scrivi che Salvo vorrebbe fare il politico ma che sarà disoccupato». Lo scrivo: Salvo, il ragazzino che ha già messo da parte le illusioni, è la faccia dello Zen.
Persone che avrebbero bisogno del doppio della scuola, e ne avranno nemmeno la metà.