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Per le donne di Bangui l'unica salvezza dalla caccia alle streghe è farsi chiudere in carcere

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Anziane accusate dalla gente del quartiere, o dagli stessi familiari, rischiano di essere linciate o avvelenate durante riti sciamanici. Dietro alle sbarre sono al sicuro. E fanno di tutto per farsi arrestare

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C’è un sentiero di terra rossa, a Bangui. Incrocia avenue Boganda evitando di un soffio il famigerato quartiere Pk5, poi scivola verso sud, come un serpente a sonagli. Molto prima di tuffarsi nell’Ubangui, dove una mezzaluna di terra scura emerge dalle acque verdi e limacciose del fiume, costeggia una distesa di baracche dai tetti di lamiera masticate dal sole: quartiere Bacongo, secondo arrondissement della capitale della Repubblica Centrafricana. Hélène N’Dendja vive qui. Da sempre, dice, perché non ricorda la sua età e del quartiere conosce ogni volto.

Da quando il nipote l’ha accusata d’essere una strega, non riconosce più il suo. «Il figlio di mia sorella sostiene che io abbia utilizzato la stregoneria per bloccare la sua crescita, mettendo una pozione nelle foglie di manioca che abbiamo mangiato insieme», racconta Hélène. L’accusa è stata formalizzata davanti al capo villaggio. «Da allora vivo nel terrore di essere uccisa dalla gente della zona. Più ancora, provo una grande vergogna, perché quest’accusa ricade sui miei figli. Se non ci fossero loro a proteggermi, sarei già stata bruciata o fatta a pezzi».
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La casa è diventata la sua prigione. Hélène trascorre le giornate osservando la vita del quartiere, improvvisamente ostile, attraverso le sbarre della finestra. Appese al muro scrostato, le rare fotografie di una vita e un manifesto elettorale su cui campeggia il volto dell’attuale presidente della Repubblica Centroafricana: sua eccellenza Faustin Archange Touadera. Non è l’unica, Hélène, a subire le conseguenze di un’accusa così grave. Il Paese conosce una recrudescenza inedita di linciaggi e omicidi: a morire sono soprattutto persone anziane, sospettate di stregoneria. Un fenomeno, secondo qualcuno, direttamente connesso con una guerra scoppiata nel 2012. Che nessuno sembra in grado di fermare.

Monsieur Laurent Pampali, tre volte ministro del governo centrafricano, quattro volte deputato, professore di filosofia e sociologia, ha appena scritto un articolo indirizzato al “Pouvoir Public”, il “potere pubblico”. Formula liquida, forse utile per definire genericamente un sistema di potere non sempre identificabile con le istituzioni repubblicane. Contiene un avvertimento: se il conflitto armato non s’interrompe, se le condizioni di miseria, povertà e degrado non miglioreranno, entro qualche anno il Paese vivrà una vera emergenza sociale legata alla salute mentale dei suoi abitanti.
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Monsieur Pampali non ha dubbi: la caccia alle streghe in corso è figlia della guerra. «I giovani hanno visto i Seleka e gli Antibalaka uccidere i genitori, sventrare i fratelli, violentare le sorelle. Tutto questo provoca dei traumi psichici profondi: oggi siamo una società fragile, da cui la facile credenza nella stregoneria, nella magia, perché in un mondo precario, violento, lo spirito è perturbato e vede nemici ovunque, anche all’interno della famiglia». Tutto ciò che è strano, sostiene Monsieur Pampali, è ritenuto sospetto: l’età avanzata, un comportamento bizzarro, la crescita di un lipoma, persino l’acuta intelligenza di una bambina scatena l’accusa. Un’accusa senza appello: a volte la gendarmeria interviene per proteggere la vittima, la accompagna in caserma per sottrarla al linciaggio. «In molti casi la popolazione assalta la gendarmeria e la brucia pur di uccidere la persona sospettata di essere una strega».
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Non sono solo le donne a essere colpite da questa accusa: Monsieur Kamere Gabriel l’ha vista davvero brutta, per mesi. Almeno fino a quando i suoi nipoti non hanno deciso di abbandonare il quartiere Fatima e trasferirsi con lui a Bacongo. Per proteggerlo. La sua colpa: aver vissuto troppo a lungo. «Prima i giovani rispettavano e veneravano le persone anziane, considerate depositarie di conoscenza e saggezza», racconta nella sua stanza, la mano saldamente appoggiata a un bastone da passeggio. «Oggi siamo dei corpi estranei, rischiamo di essere lapidati per il solo fatto di aver avuto la fortuna di invecchiare».

Per incontrare Madame Fornel Nadja Carine, presidente dell’Associazione Femmes Juristes de Centrafrique (Afjc), occorre mettersi in strada molto presto. Da quando ha iniziato a occuparsi di casi di stregoneria, non ha più un attimo di respiro. Nel suo ufficio di Bangui, ingombro di fascicoli, nomi, numeri di telefono, arrivano ogni giorno comunicazioni e informazioni relative a nuovi casi. «Il codice penale centrafricano prevede il reato di stregoneria, ma non arriva a definirlo compiutamente», dice. «Trattandosi di materia mistica, le prove sono spesso indiziarie e si basano sulle credenze popolari. Di fatto, solo la piena confessione dell’imputato di solito porta a una condanna. Ma la verità è che dal momento in cui viene enunciata l’accusa, è finita».

Si evita persino di cercare le prove o di indagare le circostanze che l’hanno prodotta, sottolinea l’attivista. La popolazione tutta, senza eccezione, attacca immediatamente la persona sospettata di stregoneria, spesso uccidendola barbaramente. «La giustizia popolare è generalmente tollerata in casi come questo. A subire questi attacchi sono le categorie più fragili della società, ovvero donne anziane e bambine, molto più raramente gli uomini», conclude.

Se i tribunali ordinari hanno qualche difficoltà nell’esprimersi su questi casi, c’è chi ne ha fatta una professione: si chiama Marc Sandoumbé, è il capo del quartiere Fatima, sesto arrondissement di Bangui. Si definisce un giudice competente in materia di stregoneria. Quel che è certo, è che i casi più scottanti di Bangui e provincia arrivano sulla sua scrivania: un tavolo d’assi di legno grezze all’ombra di un grande mango, nella piazza centrale del quartiere. «Sapete, la stregoneria è un’arma mistica, che una persona detiene per fare del male al prossimo. Non si può vedere, ma io posso capire se una persona è una strega. È una saggezza che mi è stata data dal buon Dio e non dagli uomini».

Il metodo? Ce ne sono diversi. Alle sospettate viene offerto un bicchiere d’acqua avvelenata. Se bevono e sopravvivono, sono innocenti. Se muoiono, o se non bevono, sono colpevoli. Oppure l’uso del Mbengé, una pratica magica pigmea. «Si scrivono i nomi delle persone presenti su un foglio di carta e poi si chiede loro se hanno intenzione di uccidere. Se il bastoncino del Mbéngé si ferma su un nome, quella persona è colpevole». Anche la testimonianza di un minore è considerata prova inappellabile. Oppure, ovviamente, la confessione, spesso ottenuta in cambio della promessa d’aver salva la vita. «Quando scopro che una persona è colpevole chiamo la polizia criminale e chiedo che vengano a prenderla, in modo che non sia linciata dai presenti».

Secondo Madame Fornel c’è un solo modo per salvarsi la vita: essere imprigionate nel carcere femminile di Bimbo, alle porte della capitale. È forse l’unico carcere al mondo in cui l’85 per cento circa delle detenute si trova volontariamente dietro le sbarre. Per tutte l’accusa è la stessa: stregoneria. Le sbarre salvano la vita, ma non proteggono certo da altri rischi: «Le donne imprigionate sono spesso vittime di violenze da parte delle guardie carcerarie», afferma Madame Fornel, che aggiunge: «Ad aggravare la situazione, la catastrofe finanziaria del Paese: per quanto il sistema carcerario sia teoricamente obbligato a nutrire i detenuti, questo non avviene mai. Le donne sole, e quelle abbandonate dai parenti a causa delle accuse infamanti, rischiano di morire di fame».

Anche fuori dal carcere lo spettro della fame incombe su coloro che ogni giorno devono fare i conti con la stigmatizzazione: Martine Reganpo, nonostante abbia solo quarant’anni, è accusata di stregoneria perché ha perso il bambino che aveva in grembo e non ne ha avuti altri. Tutti i suoi parenti sono morti, e oggi vive sola nel quartiere Bacongo, in una casa fatiscente circondata da una siepe incolta. «Sono nata al villaggio Mourou, sul fiume, e sono stata portata a Bangui da mia zia. Ho pagato questa casa quando ancora mio marito lavorava al Safari Hotel, all’epoca del presidente Bokassa. Sta crollando, ma se non mi fossi battuta perché diventasse mia sarei morta da tempo», racconta Martine. «Quando vado a cercare qualcosa da mangiare, al mercato o nelle strade, i giovani m’insultano, dicono cose orribili. Io dico solo “pardon” e torno subito a casa senza niente da mangiare. Non so cosa ho fatto per meritare di vivere in questa miseria. Non sono una strega».

Anche le persone affette da patologia psichiatriche sono spesso accusate di stregoneria. L’ospedale centrale di Bangui è l’unica struttura sanitaria del Paese che ospiti al suo interno un reparto psichiatrico. Due stanzoni d’intonaco scrostato punteggiati di brande color ruggine, pareti spoglie graffiate da invocazioni religiose. Lo dirige Natalie Koutou, infermiera con funzioni di primario.

«Abbiamo a disposizione un solo psichiatra per tutto la Repubblica Centrafricana, e non è sempre presente. Lo psicologo se n’è andato. I medicinali non arrivano. I pazienti, a causa del conflitto armato in corso, non fanno che aumentare. Oltre 1.200 nuovi casi al mese, ed è necessario comprendere che sono pochissimi, in percentuale, quelli che si rivolgono a noi, perché temono la stigmatizzazione che ne deriva: la malattia mentale è considerata una colpa, spesso si crede che la persona sofferente sia stata colpita da un maleficio».

Secondo Shoungo Dieudonné, medico generalista appartenente alla congregazione “Frères de la charité de Bangui”, il vero problema è proprio questo: «I soggetti traumatizzati arrivano in ritardo, a volte mesi dopo l’evento scatenante, quando ormai si trovano in una condizione di stress post traumatico grave, a volte irreversibile». Persone sofferenti, spiega, a causa di episodi estremamente violenti subiti o cui hanno assistito: stupri, omicidi, torture. «Queste persone vengono abbandonate o uccise, perché si pensa siano vittime o artefici di malefici. Si stima che il 30-40 per cento dei centrafricani abbia subito dei traumi psichici profondi a causa del conflitto armato, che purtroppo continua».

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