
Può apparire paradossale che di socialismo si torni a parlare, e senza grosso scandalo, come confermano i sondaggi d’opinione e anche i commenti dei media mainstream, nell’America trumpiana e trumpizzata che si vorrebbe tutta girata a destra. E come si sa la destra soprattutto, ma non solo, ha sempre attribuito alla parola socialismo un significato eversivo, antipatriottico, un-American.
Il suo possibile recente appeal, tuttavia, si capisce meglio se si pensa che in effetti l’America è spaccata in due, polarizzata, e che quella di Donald Trump è un’America di minoranza, di minoranza nei numeri nazionali (l’attuale Presidente ha preso tre milioni di voti in meno di Hillary Clinton) e nell’insediamento sociale e regionale (periferico, lontano dai centri dinamici della produzione, dell’innovazione, della crescita demografica). L’evocazione del socialismo, per quanto vaga, pare a una nuova generazione di attivisti uno strumento di mobilitazione per riportare il partito democratico a essere quello che potenzialmente è, il partito di maggioranza.
E per farlo diverso, per cambiarlo. I giovani militanti criticano il partito per le sue politiche centriste degli ultimi quarant’anni. La raccontano così. I democratici erano i campioni dello Stato regolatore e dei servizi pubblici, della tassazione progressiva e della redistribuzione del reddito, dei sindacati e dei lavoratori. Dagli anni Settanta sono invece diventati privatizzatori e liberalizzatori, non più liberal ma «neo-liberali» entusiasti degli strumenti di mercato (anche Obamacare lo è, e per questo mostra tutti i suoi limiti), ancora ieri favorevoli all’abbassamento delle tasse, lontani dai bisogni dei salariati e vicini ai sindacati solo quando si tratta di bussare a soldi per le elezioni. Tutto questo, dicono, in un contesto materiale di stagnazione dei salari, grandi diseguaglianze, enormi debiti privati, blocco della mobilità sociale, ripresa economica reale ma molto selettiva, servizi sempre più scadenti e costosi, compresa l’istruzione superiore.
Il contesto materiale è tale che la critica socialista può apparire di buon senso, non una astrazione ideologica. E intendiamoci, tutt’altro che ideologici o estremisti sono i rimedi proposti. Il catalogo è questo: impegno ambientalista, diritti degli immigrati alla cittadinanza e alla sicurezza, difesa dei sindacati e dei lavoratori, salario minimo, diritti delle donne (eguaglianza salariale e diritti riproduttivi) e delle persone Lgbt, massicci investimenti nelle infrastrutture, riforma del finanziamento della politica, sanità per tutti (Medicare for All) e college gratuiti. Restano nebulose le faccende di politica estera, a parte una generica opposizione alle politiche liberiste, di libero scambio. Non è che si parli di auto-governo dei lavoratori, o di proprietà collettiva dei mezzi di produzione, ci mancherebbe. Siamo piuttosto dalle parti del riformismo rooseveltiano e johnsoniano, che sembra radicale perché i democratici si sono molto moderati.
Come è evidente non si tratta certo di novità, fra l’altro queste questioni fanno parte del dibattito transatlantico sui destini delle sinistre. E spesso hanno portato a scissioni, frantumazioni, crisi dei grandi partiti, a politiche minoritarie da parte di piccoli partiti, piccoli e minoritari per mentalità e scelta. La novità qui è che sono esplose dentro i democratici, dall’alto e dal basso, e che hanno l’ambizione di avere rilevanza generale per tutto il partito almeno come spirito e prospettiva. Mettendo da parte il vecchio sogno leftist di smontare il sistema bipartitico, di creare un «terzo partito» che abbia un ruolo stabile e non solo episodico nella politica nazionale. D’altra parte, chi decida di misurarsi con la politica elettorale con l’obiettivo di vincere, nel sistema dominato dal collegio uninominale a maggioranza semplice, non può fare che così anche a livello di base: deve per forza arrivare primo, cioè avere una vocazione maggioritaria.
Il Bernie Sanders del 2016 ha aperto la strada dall’alto a questo tipo di politica. Da politician di statura nazionale si è autodefinito socialista, non ne ha pagato il prezzo e ha reso la parola di uso quotidiano. Il suo socialismo democratico fa appello a una tradizione americana che un secolo fa era promettente, una promessa poi non mantenuta ma tutt’altro che simpaticamente innocua. Negli uffici che ha occupato e che occupa, prima di sindaco di Burlington («la Repubblica popolare di Burlington», come si diceva ai tempi), poi di deputato alla Camera e ora di senatore del Vermont, si è sempre portato dietro il ritratto di Eugene Debs. E all’inizio del Novecento Debs era l’ardente candidato presidenziale del Socialist Party of America, un partito della Seconda Internazionale che, fra l’altro, a differenza di molti confratelli, si oppose all’entrata del paese nella Grande guerra. Per questo Debs finì in galera. Nel 1920 si candidò dal penitenziario federale di Atlanta dove era recluso: «Convict No. 9653 for President» era il suo slogan elettorale.
Sanders è un socialista che vuol fare politica maggioritaria. Da senatore è un indipendente, e tuttavia deve la sua elezione nel Vermont alla benevola desistenza dei democratici che non lo sfidano davvero nel collegio uninominale che comprende tutto lo Stato. È un politico di professione che si è costruito in loco una coalizione elettorale vincente, ampia e diversificata, con tutta la cura del caso. Per presentarsi come serio candidato alla presidenza si è iscritto al partito democratico, anche per partecipare alle sue primarie, e questo è stato un bel dilemma per lui. Perché Sanders è scontento del sistema bipartitico, l’ha sempre detto, ma arrivato al dunque, che fare, visto che un terzo partito non esiste? Correre da indipendente avrebbe voluto dire ripetere la disgraziata esperienza di Ralph Nader nel 2000, togliere voti ai democratici e favorire la vittoria di un repubblicano, magari molto di destra. Questo Bernie non l’ha voluto fare (Anche se nel 2016 un repubblicano molto di destra ha vinto comunque.)
I dilemmi del terzo partito non sembrano angustiare i nuovi socialisti che agiscono dal basso. La loro scelta interna ai democratici pare naturale, praticata in mille luoghi, con le primarie come mezzo d’elezione. I loro critici dentro il partito sperano che si tratti di un fenomeno limitato al Nordest della star newyorkese Alexandria Ocasio-Cortez; temono che spostare il partito troppo a sinistra sia una ricetta di sconfitta. Ma in effetti spuntano un po’ ovunque, con l’etichetta di socialista o senza, con programmi e attitudini simili, con la stessa giovane età, nel Midwest e in California, nel Sud e nel Sudovest. Hanno nomi che riflettono le ultimissime ondate migratorie, non più solo ispaniche ma dall’Asia e dal Medio oriente, ci sono candidati arabi e musulmani (e qui c’è sempre qualche grana legata alla questione israelo-palestinese). Hanno la stessa rete di sponsor, organizzazioni progressiste come Justice Democrats o Our Revolution di Sanders, sindacati di simpatie sanderiste. Cominciano a raccogliere l’endorsement di figure istituzionali come le senatrici Elisabeth Warren e, più centrista, Kamala Harris – perché tutti nel partito stanno prendendo nota.
I più politicizzati fra loro appartengono alla sigla di cui più si parla, i Dsa o Democratic Socialists of America, una organizzazione a lungo iscritta all’internazionale socialista (ne è uscita l’anno scorso accusandola di neoliberalismo). Qui le ombre del passato, più che del Debs di inizio Novecento sono quelle delle lotte settarie della Old Left di metà secolo e della New Left, ricomposte e dimenticate in nome della strategia pragmatica del fondatore Michael Harrington. Il quale riteneva che la via per diffondere qualcosa di socialista nel paese, se non poteva passare per un partito dedicato, conveniva provare a farlo passare con l’azione politica dentro un grande partito interclassista, da contaminare e influenzare. Diceva Harrington: «voglio essere l’ala sinistra del possibile», e il possibile era fra i democratici. I Dsa sono nati nel 1982 dalla fusione di piccoli gruppi precedenti, in tutto alcune migliaia di persone, molti generali e pochi soldati semplici. Ma la fusione è riuscita non male, oggi gli iscritti sono quasi 50.000 in più di 200 sedi in tutto il paese, e stanno crescendo e ringiovanendo a vista d’occhio. Dicono che l’età media sia passata dai 68 anni del 2013 ai 33 anni di fine 2017, un salto incredibile e forse difficile da credere - oppure è un miracolo di Donald Trump.
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