Sequestrata l'area in costruzione a sudest della città: dopo la presunta bonifica, l'acqua nelle case è inquinata e cancerogena. Una vicenda dove c'è un imprenditore con molti agganci nella politica lombarda

Doveva essere il quartiere del rilancio di Milano: più di un milione di metri quadrati a sudest della città, da riconvertire in aree residenziali dopo aver ospitato per decenni stabilimenti e fabbriche. Adesso è finito tutto sotto sequestro: il giudice delle indagini preliminari Fabrizio D'Arcangelo ipotizza diversi reati, tra cui attività di gestione di rifiuti non autorizzata e avvelenamento delle acque. Il sequestro riguarda tutta l'area ex Montedison non edificata ma sulla quale è in programma la costruzione di edifici e una parte del Parco Trapezio, nei cui pressi c'è una scuola.

Le diverse relazioni presentate hanno evidenziato infatti l'inquinamento della falda acquifera sottostante l'area, con superamenti dei limiti di legge di alcune sostanze pericolose per l'ambiente e la salute, tra cui alcune cancerogene. Su diversi terreni dell'area, inoltre, sarebbero stati eseguiti scavi non autorizzati, nei quali sarebbero state poi riportate, senza alcun titolo, scorie di acciaieria da trattare invece come rifiuti.

Anche il sottosuolo della parte già abitata sarebbe risultato contaminato.

In altre parole, la bonifica dell'area - per la quale sono stati spesi milioni di euro pubblici - non sarebbe mai avvenuta, o quanto meno non sarebbe avvenuta correttamente. Secondo l'accusa, incassato il denaro, si nascondevano i veleni invece di eliminarli.

Dell'area di Santa Giulia si parla fin dal 2000, quando il gruppo immobiliare guidato da Luigi Zunino propose il riutilizzo dell'intero complesso attraverso il progetto Montecity, elaborato anche dall'architetto britannico Norman Foster, che prevedeva la realizzazione di un gigantesco programma di edilizia sociale e convenzionata. Nel frattempo però Zunino travolto dai debiti è uscito di scena a fine 2009. E Montecity è finita in mano alle banche creditrici guidate da Intesa e Unicredit che cercheranno di portare a termine il progetto immobiliare di molto ridimensionato.

Al centro della bonifica finita sotto inchiesta c'è invece l'imprenditore Giuseppe Grossi, il boss del business ambientale, proprietario del gruppo Green holding. Arrestato nell'ottobre del 2009 dai pm di Milano con accuse di frode fiscale, appropriazione indebita e truffa, adesso Grossi, libero dall'aprile scorso, conta di uscire di scena patteggiando tre anni e sei mesi di reclusione con la restituzione di 17 milioni di euro di fondi neri accumulati all'estero. Un fiume di denaro che secondo la ricostruzione degli investigatori nasceva proprio dal mega affare della bonifica di Montecity. Ma negli anni d'oro il re Mida delle bonifiche vantava agganci ad alto livello nella politica. A cominciare da Giancarlo Abelli, Pdl ramo Forza Italia, già potente boss della sanità lombarda. E poi Roberto Formigoni, il quale, a dire il vero, ha sempre sostenuto che la storiaccia brutta di Grossi, l'uomo che trasformava i rifiuti in oro, non lo riguarda minimamente. Anzi.

Il governatore della Lombardia si è ritagliato un ruolo da semplice spettatore. Che c'entra lui con la velocissima ascesa di un imprenditore spuntato dal nulla una dozzina di anni fa e ora accreditato di un patrimonio miliardario, tra immense collezioni d'auto d'epoca, jet privati, yacht, tenute di caccia e centinaia di case sparse per l'Italia? E, soprattutto, che c'entra Formigoni con i guai di Grossi?

Dalle società di Grossi nei paradisi fiscali sono spuntati 22 milioni di fondi neri e la procura di Milano ne chiede conto e ragione. I magistrati indagano sul gigantesco business delle bonifiche ambientali a suo tempo affidate a Grossi nell'area milanese. Quella di Montecity-Santa Giulia a Rogoredo, appunto, ma anche l'incredibile vicenda dell'area Sisas di Rodano-Pioltello, un risanamento ambientale progettato «senza alcun intervento di finanziamenti pubblici» e che adesso, invece, rischia di pesare per decine di milioni sui bilanci dello Stato e della Lombardia. Formigoni, però, si chiama fuori. Certo, lui Grossi lo conosce. A tal punto da accettare, nell'inverno del 2007, l'invito al grande party per i 60 anni dell'imprenditore, celebrati con un ricevimento affollato da un centinaio di ospiti nella fastosa cornice dell'hotel Four Seasons di Milano. Semplice atto di presenza a un evento mondano, minimizzano i collaboratori del governatore.

La montagna di documenti ufficiali cresciuta negli anni attorno all'operazione Sisas, un affare da (almeno) 120 milioni, racconta però una storia precisa. Per esempio, l'ordine del giorno della seduta di giunta regionale dell'8 aprile del 2009 (numero161) recita testualmente: "Ipotesi di atto integrativo inerente l'assetto pianificatorio dell'area ex Sisas". E il relatore designato è proprio lui, Roberto Formigoni. Del resto, come confermano numerose fonti interpellate da "L'espresso", il lungo iter di approvazione della bonifica Sisas è stato sempre seguito dalla Direzione centrale programmazione integrata, una struttura che fa capo direttamente alla presidenza della Regione. Nell'aprile scorso, in una delle riunioni decisive, fu Marco Carabelli, uno stretto collaboratore del governatore, a svolgere un ruolo fondamentale di mediazione tra le parti in causa. E durante l'incontro, terminato a notte inoltrata, Carabelli informò più volte Formigoni dei progressi della trattativa.

Il negoziato si è concluso esattamente come Grossi sperava. Tra aprile e giugno la giunta regionale gli ha confezionato un paracadute su misura. Soldi pubblici, 12 milioni di euro, per coprire quelli che vengono definiti gli "extracosti della bonifica". E altri 32 milioni (più altrettanti stanziati dal ministero dell'Ambiente) qualora l'operazione Sisas «non consegua», per dirla con le parole di Umberto Benezzoli, direttore generale dell'assessorato lombardo all'Ambiente, «gli obiettivi di equilibrio economico finanziario posti». In altri termini, se per qualunque motivo non andasse in porto la speculazione immobiliare progettata sull'area bonificata (240 mila metri quadrati di nuove costruzioni, di cui quasi 100 mila destinati a un centro commerciale), allora sarà la Regione a pagare il conto.

Niente da fare. Travolto dai guai giudiziari, Grossi nei giorni scorsi ha detto addio all'affare Sisas. E la bonifica, per non incappare in una maxi multa della Ue (circa 400 milioni di euro) sarà pagata dallo Stato. Sfuma così per Grossi l'ultimo colpo, forse il più ricco, di una lunga e fortunata carriera. Un'ascesa velocissima e in apparenza irresistibile, applaudita negli anni da una schiera di amici influenti. C'è il potente boss del Pdl lombardo Giancarlo Abelli e la moglie Rosanna Gariboldi, anche lei arrestata il 20 ottobre 2009 con l'accusa di riciclaggio di una parte di quei 22 milioni di fondi neri attribuiti al re Mida delle bonifiche. Poi Paolo Berlusconi, il fratello di Silvio editore de "il Giornale", con cui i contatti telefonici erano quasi quotidiani.

E ancora Mario Resca, manager apprezzatissimo dal presidente del Consiglio, da pochi mesi approdato alla poltrona di direttore generale del ministero dei Beni culturali. Il legame pluriennale con il prete imprenditore don Luigi Verzè ha invece proiettato Grossi fino al consiglio di amministrazione della Fondazione Monte Tabor, a cui fa capo il polo ospedaliero del San Raffaele di Milano.

Questi nomi famosi fanno da sponda a una carriera tutta sottotraccia. Chioma d'argento, folta barba bianca, il più importante industriale italiano nel settore delle bonifiche, come è stato descritto dai giornali al momento dell'arresto, non è il tipo che passa inosservato, anche per via della stazza imponente: più di un quintale per oltre un metro e 80 di altezza. Sposato, tre figli (due gemelle, Paola e Simona classe 1977, e Andrea del 1982), Grossi ha modi decisi, spesso bruschi, che svelano un temperamento da self made man: parole poche, pubblicità zero. Insomma, badare al sodo, con una cura ossessiva della privacy, della riservatezza. «Ho fatto l'emigrante al contrario», amava raccontare Grossi ai suoi collaboratori. Nel senso che negli anni Ottanta lasciò la Lombardia con destinazione Taranto per agganciarsi al treno miliardario dell'Ilva-Italsider.

Nell'indotto delle acciaierie di Stato arrivano i primi miliardi (in lire), ma quando un decennio dopo torna al nord Grossi resta un perfetto sconosciuto nei circoli industriali che contano. In Puglia però conserva l'amicizia dell'imprenditore Stefano Miccolis, un legame che tornerà utile anche di recente per alcune operazioni in comune nel settore discariche e per il progetto, mai decollato, di un termovalorizzatore a Trani. Miccolis, con interessi negli autotrasporti e nel settore ambientale, è attivissimo a Taranto con la sua Ecologica spa. A Milano, invece, Grossi spunta all'orizzonte del grande business nel luglio del 1997, quando compra le attività italiane del gruppo americano Browning ferries industries (Bfi) di Houston, all'epoca uno dei grandi marchi dello smaltimento rifiuti. Il prezzo dichiarato dell'operazione si aggira intorno ai 26 miliardi di lire dell'epoca, circa 13 milioni di euro. Gli americani escono di scena, ma l'identità del compratore è schermata da società come la Gridway services, base a Dublino e la lussemburghese Stratinvest.

Quello però è solo l'inizio, perché l'ascesa di Grossi è scandita da un gran via vai di finanziarie off shore. "L'espresso" ha rintracciato Estrella, Adami, Gridway (omonima dell'irlandese), Fadinvest, Green Luxembourg, Double Green, tutte con base nel Granducato. Nel Liechtenstein invece troviamo due anstalt: Adami ed Estrella, con la stessa ragione sociale delle cugine lussemburghesi. È una girandola infernale, con una scatola che rimanda all'altra e spesso ne prende il posto dopo anni (a volte soltanto mesi) di onorato servizio. I bilanci di questi veicoli societari lasciano il tempo che trovano. I documenti ufficiali rimandano però a un indirizzo di Galleria del Corso a Milano, a pochi passi dal Duomo, presso lo studio di Federico Ventura. È lui, più di recente insieme al figlio Vittorio, il commercialista di fiducia di Grossi. Ventura, classe 1941, compare da almeno un ventennio negli organigrammi della Servizi industriali, il nucleo originario del gruppo Green holding, attiva nella gestione di discariche e in genere nello smaltimento di rifiuti, compresi quelli pericolosi.

Grossi fa grande sfoggio di liquidità. Punta dritto sul business dell'ambiente che garantisce margini di guadagno elevati. Nel 2008 l'inceneritore di Dalmine, gioiello del gruppo Green holding, ha guadagnato al lordo delle tasse più di 6 milioni su 38 di ricavi. E per la discarica di Sant'Urbano, in provincia di Padova, è andata ancora meglio: 4 milioni di profitti su 18 di fatturato. Certo sono business ad alto rischio, per così dire, politico. Servono buoni rapporti con gli enti locali per ottenere i via libera necessari per investimenti (discariche, inceneritori) spesso poco graditi, per usare un eufemismo, ai cittadini. In questo campo Grossi se la cava alla grande. Non fa niente per nascondere i suoi rapporti di amicizia con sindaci e assessori in Lombardia e altrove. Ma l'ambiente, a quanto pare non gli basta. Tra il 2000 e il 2001, per esempio, il patron di Green holding fa qualche sondaggio per rilevare l'Impregilo, il colosso delle costruzioni che all'epoca era controllato dalla famiglia Romiti. Non se ne fa niente. A quei tempi il mattone tira alla grande e Grossi cavalca l'onda del rialzo. Compra all'asta dalla liquidazione Cirio il Palazzo dell'Innominato a Brignano d'Adda, messo in vendita dal suo amico Resca, all'epoca commissario del gruppo Cragnotti.

Pubblicità zero, come al solito. Mentre in quegli anni i palazzinari come Stefano Ricucci e Danilo Coppola fanno a gara per conquistarsi i titoli sui giornali, lui niente. Zitto, zitto macina profitti per decine di milioni. Nel 2003 si compra un'intera palazzina nel centralissimo corso Magenta a Milano. L'operazione vale oltre 60 milioni e per l'occasione Grossi si mette in società con i fratelli Aldo e Giorgio Magnoni, finanzieri attivissimi sul fronte del mattone. Il rapporto durerà nel tempo. Saranno i Magnoni nel 2006 a girare a Green holding la Sadi quotata in Borsa, messa in vendita giusto qualche mese prima dal presidente dell'Eni Paolo Scaroni, che la controllava attraverso un trust personale. Il doppio passaggio a distanza così ravvicinata ha sollevato molti interrogativi. Nel 2005, quando venne congegnato l'affare, Scaroni conosceva già i Magnoni e anche Grossi. «L'ho incrociato cinque o sei volte», minimizza il numero uno del gruppo petrolifero.

Ma torniamo al palazzo di corso Magenta, perché da lì parte un altro filo importante in questa storia. Infatti nel 2004 il prestigioso immobile milanese viene rilevato da Luigi Zunino, altro imprenditore all'epoca assai rampante. Zunino pensa in grande, forse troppo. Vuole costruire ex novo un quartiere alle porte di Milano e commissiona a Grossi la bonifica dell'area dove si andrà a costruire, un tempo occupata da impianti chimici della Montedison. Santa Giulia, questo il nome della città satellite, porta male ad entrambi. Zunino è stato travolto dalla crisi del mercato. Mentre i costi, secondo l'accusa gonfiati ad arte, della ripulitura dei terreni finiscono al centro dell'inchiesta dei pm. E adesso arriva anche il sequestro di Santa Giulia, assediata dai veleni.

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