Adriamicina. Una parola magica che 45 anni fa ha aperto al nostro Paese le porte del mercato più redditizio: quello dei farmaci anti-tumorali, la cura che proprio allora ha rivoluzionato l’oncologia. Un miracolo nell’Italia del miracolo economico, figlio di una pattuglia di ricercatori con grandi idee e poche risorse.
E dell’intesa con un’azienda che sarebbe diventata ricca grazie a quella molecola capace di fermare il cancro. Erano le premesse perché a Milano si sviluppasse un’industria farmaceutica d’alto livello, capace di confrontarsi con i giganti mondiali di Big Pharma, creando ricerca, profitti e salute o quanto meno una prospettiva di vita meno drammatica per i malati di cancro. Invece siamo stati capaci di soffocare questo germoglio, distruggendo le chance per entrare nel settore più promettente del presente e del futuro.
La storia di questa disfatta è il punto di partenza di un saggio, rigoroso e documentatissimo, che racconta con la verve di un pamphlet uno dei delitti più gravi del dopoguerra: l’uccisione della ricerca biomedica in Italia. La prima delle eccellenze nazionali che abbiamo svenduto agli stranieri e poi lentamente smantellato, fino a diventare terra di conquista per prodotti concepiti altrove.
Gli autori sono Silvio Monfardini, uno dei padri della chemioterapia nel nostro Paese, e Daniela Minerva, che sulle pagine de “l’Espresso” da oltre vent’anni si occupa di questi argomenti. I due non hanno remore a indicare i colpevoli, facendo nomi e cognomi. Una tragedia sintetizzata in un’immagine sorprendente, che dà il titolo al libro in uscita per “Codice edizioni”: “Il bagnino e i samurai”.
I “sette samurai” sono i giovani scienziati che furono riuniti alla fine degli anni Sessanta da Gianni Bonadonna all’Istituto Tumori di Milano per le prime sperimentazioni della chemioterapia. Nel regno di dolore del Reparto C studiavano gli effetti sui pazienti, che allora erano considerati incurabili, delle sostanze elaborate da Farmitalia, impresa del gruppo Montedison. I loro studi si sono imposti nel mondo, dimostrando che l’adriamicina funzionava: il farmaco made in Italy è diventato nei decenni successivi un elemento fondamentale della terapia contro diverse forme di cancro e le sue fortune proseguono ancora oggi.
Il “Bagnino” invece è Carlo Sama, il ragioniere dalla bella chioma che negli stessi anni spopolava sulle spiagge romagnole dove si conquistò le grazie di Alessandra Ferruzzi, tanto da sostituire nel 1990 Raul Gardini al vertice dell’intero gruppo Ferruzzi-Montedison. La holding di Foro Bonaparte aveva fuso Farmitalia con la Carlo Erba, gettando le basi per un colosso nazionale delle medicine. Ma il sogno si è spento nel marzo 1993 quando Sama lo ha venduto agli svedesi della Kabi Pharmacia per 2 mila miliardi di lire.
Soldi incassati per dare ossigeno alle sgangherate strategie della famiglia ravennate e che sono stati bruciati in soli cinque mesi: a fine luglio 1993 la retata per il tangentone Enimont ha travolto definitivamente i Ferruzzi.
Oggi il “Bagnino” è tornato alla vocazione originaria: gestisce un resort alla moda con music lounge sull’arenile di Formentera, gettonatissimo da veline e calciatori. Un profilo inconciliabile con quello dei “sette samurai”. Il soprannome venne coniato dal loro leader Gianni Bonadonna perché come i guerrieri giapponesi sapevano «affrontare a viso aperto ogni difficoltà, gli ostacoli e gli imprevisti».
Con lui c’era una pattuglia di trentenni che venivano da tutte le regioni: Mario De Lena, Emilio Bajetta, Gabriele Tancini, Gianni Beretta, Pinuccia Valagusa e Silvio Monfardini, l’autore del libro. Erano «giovani, aggressivi e senza il sangue blu necessario per entrare nella corte degli accademici», come li definì un chirurgo coetaneo con cui iniziò subito una collaborazione, Umberto Veronesi: Bonadonna non ha mai avuto una cattedra universitaria, ma resta un’autorità stimata al massimo livello negli Stati Uniti.
I sette guardavano all’America. Lì la guerra al cancro proclamata dal presidente Richard Nixon stava pompando fondi stratosferici: si imponeva un nuovo modo di fare ricerca su scala globale, abbattendo gli steccati tra aziende e atenei. Una sfida, raccolta dal pool dell’Istituto Tumori e sancita dal successo dell’adriamicina di Farmitalia che aveva fatto persino piovere a Milano i finanziamenti della Casa Bianca. I ragazzi in camice bianco del Reparto C con il loro entusiasmo e il loro ingegno hanno reso l’Italia protagonista in un mercato mondiale che non ha mai smesso di crescere.
Alla fine del 2012 il fatturato planetario dell’industria delle medicine superava i mille miliardi di dollari, con una prospettiva di sviluppo che nonostante la crisi puntava all’8 per cento annuo. Si stima che negli Usa la spesa per gli antitumorali nel 2020 sarà di 158 miliardi di dollari. Mentre in Italia ogni anno spendiamo circa un miliardo e mezzo per questi farmaci. Come scrivono Minerva e Monfardini è «un business colossale, alimentato da una portentosa macchina da guerra. Migliaia di scienziati e un fiume ininterrotto di soldi: soltanto il National Cancer Institute americano ha investito nella ricerca e nelle sperimentazioni oltre 90 miliardi di dollari in quarant’anni. Per vincere una sfida scientifica che ieri sembrava utopia, ma che oggi garantisce una cura a 250 mila nuovi malati l’anno solo in Italia.
Molti di loro sono trattati anche con i farmaci comprati dalle grandi multinazionali che hanno speso per lo sviluppo di ciascuno di essi circa un miliardo di dollari, impiegando centinaia di ricercatori di alto livello. Esistono, insomma, un’industria e una scienza del cancro, primo motore di progresso, da cui noi siamo usciti, lasciando così fuori dalla porta uno dei settori più ricchi e palpitanti della modernità. E questo non è senza conseguenze tangibili sulla società e sulla salute degli italiani».
Chi sono i colpevoli? Sul banco degli imputati c’è soprattutto una classe politica e imprenditoriale miopi e rapaci. Una razza padrona e spesso ladrona di boiardi e padroncini. Il libro passa in rassegna tutti gli scandali che hanno segnato il rapporto tra società farmaceutiche e partiti in Italia. Mazzette e trame, segnate dai procedimenti giudiziari spesso clamorosi come quello dell’ex ministro Francesco De Lorenzo e dell’indimenticato Duilio Poggiolini, che aveva riempito i puff del salotto con le monete d’oro versate dai produttori di pasticche. I partiti si infilano dovunque, condizionando le scelte per assecondare il capocorrente del momento. Disperdono le risorse per la ricerca in una pletora di istituti sparsi per il territorio; impongono le nomine sulle poltrone chiave; lasciano senza direttive il settore o lo asfissiano con regolamentazioni iperburocratiche: la negazione della scienza moderna.
La saga della chimica nazionale, dalle spregiudicate manovre di Eugenio Cefis fino alle tangenti Enimont, è il tripudio di questo declino. Anche scoperte da Nobel come il Moplen elaborato da Giulio Natta vengono vanificate dall’assenza di capitali e strutture industriali, costellando invece l’Italia di impianti nati già arretrati e profondamente inquinanti. E - come sottolineano gli autori - senza una forte industria chimica non può esserci ricerca farmaceutica di livello.
In “Il bagnino e i samurai” l’analisi viene costruita sulla base della testimonianza diretta di Monfardini e delle interviste che Minerva ha realizzato a tutti i protagonisti del settore, italiani e internazionali. Le conclusioni sono lapidarie. Gli industriali sono sempre rimasti ancorati a una dimensione provinciale, barricati in un mercato feudale tutelato dalla politica.
Scarsi investimenti nella sperimentazione, nessuna visione globale: gli stessi difetti di tutta l’imprenditoria nazionale. «Finì poi che gli italiani scambiarono per innovazione la mera produzione sul territorio nazionale di tecnologie innovative pensate e sperimentate altrove. Questo si è fatto da duecento anni a questa parte e questo ancora si fa. Senza nulla togliere ai pionieri, soprattutto milanesi e torinesi, come Zambelletti, Carlo Erba o Roberto Lepetit che si formarono facendo studi scientifici e misero su imprese centrate sull’innovazione. Resta, però, che lo fecero elaborando idee e prodotti originali pensati altrove. Rimasero farmacisti, anche quando la loro farmacia diventò uno stabilimento. Non fecero mai il salto che sarebbe stato necessario a diventare industria hi-tech: collegamento con le università e la ricerca scientifica, e massa critica sufficiente a finanziare l’accademia chiamandola a rispondere a quesiti industriali».
I profitti sono comunque garantiti grazie alle pressioni, lecite o meno, sugli organismi pubblici che regolavano vendite e prezzi. E persino sui singoli medici, spesso pronti a prescrivere medicine griffate dietro tornaconto. Un capitolo affrontato con la testimonianza di Nello Martini, per anni alla guida dell’Aifa, l’Agenzia statale dei farmaci: «Le imprese italiane non hanno avuto bisogno di medicine innovative, e quindi di fare in modo di scoprire nuove molecole efficaci. Perché l’Italia, anche politicamente, ha sposato la strada del co-marketing. È stata data la possibilità alle aziende farmaceutiche italiane di fare degli accordi con le americane o le europee che avevano i nuovi farmaci. L’industria farmaceutica italiana pagava dei diritti di sfruttamento molto alti ma aveva in mano il meglio della scienza mondiale. Certo, poi doveva assicurarsi su quel farmaco profitti importanti, ma lo ha sempre fatto col marketing “molto aggressivo”». Ossia grazie ai patti occulti con la politica e gli intrallazzi con i medici di base.
La questione ha però radici più profonde: la diffidenza degli italiani verso la scienza, acuita negli ultimi decenni. E un’ostilità manifesta verso la ricerca farmaceutica «che puzza troppo di profitto per essere considerata alta»; “una critica che ha pervaso l’inconscio collettivo degli scienziati e dell’opinione pubblica». Un «marchio di infamia» che allontana i giovani da laboratori dove idee e energie nuove sono invece decisivi. Minerva e Monfardini vengono da una militanza di sinistra e credono nella sanità pubblica, ma non ritengono che Big Pharma sia sempre il diavolo: «Molta classe politica, soprattutto di centrosinistra, fatica a pensare un rapporto virtuoso con l’industria che possa generare buona ricerca e sviluppo economico». La stessa ostilità che portò l’allora ministro Rosy Bindi a disertare l’inaugurazione del polo scientifico di Nerviano: «Non vado dove si fanno profitti sulla pelle dei malati».
Proprio Nerviano incarna la triste parabola della ricerca biomedica italiana. La struttura modello milanese fu realizzata nel 1997 dai padroni svedesi di Farmitalia. Quando nel 2002 il colosso scandinavo venne divorato dal numero uno mondiale, la Pfizer statunitense, il destino dei laboratori italiani fu subito segnato. Alcuni imprenditori tentarono di rilevarli, ma vennero bloccati dai veti incrociati della politica romana e lombarda. Che invece consegnarono il polo hi-tech a frate Franco Decaminada, padre spirituale dei Figli dell’Immacolata concezione: i proprietari dell’Idi, l’Istituto dermatologico celebre nella capitale per le sue pomate. In pochi anni il pio istituto, prima di venire inghiottito da un vortice di sprechi e malversazioni, ha divorato la dote di 200 milioni lasciata dalla Pfizer a Milano e dichiarato bancarotta con debiti per 180 milioni. Nerviano a quel punto è passata alla Regione Lombardia per volontà di Roberto Formigoni e affidata a suoi uomini di fiducia, tutti premiati con compensi d’oro mentre le perdite aumentano. E la ricerca? Sopravvive solo per l’ostinata resistenza dei giovani scienziati, senza risorse per pensare il futuro.
Nella diagnosi spietata della deriva che sta travolgendo questa eccellenza italiana, gli autori non rinunciano a seminare speranza. Lo fanno descrivendo esempi positivi nati in provincia, come il Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, o i risultati realizzati nonostante tutto nella stessa Nerviano. Resta la domanda: torneremo mai a protagonisti nella ricerca biomedica mondiale?
La risposta di Umberto Veronesi nell’intervista finale del saggio può apparire sorprendente: «Ma guardate che siamo protagonisti. Facciamo poca ricerca, perché ci sono poche risorse, ma nell’indice pro-capite di produzione scientifica siamo nei primi posti nel mondo. La genetica la facciamo bene, gli ematologi italiani sono bravi, anche gli oncologi italiani sono bravi. Basterebbe finanziare più e meglio. Togliere la ricerca biomedica dalla gabbia che oggi rappresenta il servizio sanitario nazionale e liberarla dall’abbraccio del ministero della Salute». Riforme che non sono all’orizzonte, perché - come conclude Veronesi - «ci vorrebbe un premier forte. Sostenuto da una maggioranza forte». Ma questa in Italia è fantascienza, non scienza.