Senza famiglia, né lavoro, né casa. La situazione dei rifugiati è ormai disperata: nessuno vuole fargli un contratto, non hanno i soldi per restare in Italia, figuriamoci per tornare nei paesi d'origine. Ma per il Viminale l'emergenza è finita

"Da stanotte dormirò in strada. Non ho famiglia, né casa." Così Richard, 20 anni, della Guinea: da oggi tornerà a sopravvivere per le strade della città, come quando è stato cacciato dalla famiglia perché omosessuale. Ha lavorato in Libia ma, allo scoppio della rivoluzione, l'hanno costretto ad imbarcarsi, destinazione Italia: l'inizio di un nuovo inferno. Il permesso da rifugiato che non arriva e Richard tenta il suicidio.

Nonostante la sua situazione disperata, come quella di altri 13mila profughi richiedenti asilo (ma potrebbero essere di più), da oggi l'Italia non si occuperà più di Richard. Il Viminale ha dichiarato conclusa l'emergenza nord Africa: tutto a posto. Anche se ha lasciato alcuni di loro ancora in attesa di un permesso umanitario e privi dell'autonomia necessaria per costruirsi una vita.

Una buona uscita di 500 euro, che le prefetture non sanno con quali risorse erogare e che i comuni temono di doversi far carico, e poi via: tutti a casa o a cercar lavoro, in nero. Il prossimo 14 marzo Richard ha l'audizione in commissione territoriale per il permesso fino ad oggi negato. Ce la farà o dovrà tornare in Guinea?

Issa, 30 anni, del Sudan: aspetta un trapianto di fegato a Taranto. In compenso ha ottenuto il permesso da rifugiato a fine 2012, dopo 18 mesi di attesa. Ma il lavoro nelle campagne pugliesi che ha trovato, in nero, non riprenderà prima di maggio. "Nessuno vuol farci un contratto per una casa, figuriamoci per un lavoro." Anche l'amico di Issa, suo omonimo, lavora nelle campagne pugliesi: "arance, uva, broccoletti. Quando va bene 5-7 euro al giorno per 10 ore. Come a Rosarno, no?"

Issa è stato ospite di diversi alberghi e non sa neppure che vuol dire avere una casa. Si sente spaesato anche se ha passato due anni in Italia. E poi c'è Famacar, anche lui con un permesso umanitario da fine anno. Ora ha diciotto anni, ma se nel 2011 l'avessero protetto con un permesso da minore non accompagnato, avrebbe compiuto un percorso di integrazione, magari imparando un mestiere.

Le associazioni e le cooperative sociali in cui sono stati distribuiti Famacar, i due Issa, Richard e tanti altri, per quanto abbiano lavorato con serietà, non hanno potuto fare inclusione sociale. "La mancanza di una programmazione da parte dello Stato che provveda ad un'assistenza (non emergenziale) come previsto dall'Unione Europea, ha reso queste persone ancora più bisognose e l'Italia sta continuando a lavarsene le mani – spiega Gianfranco Schiavone dell'associazione studi giuridici per l'immigrazione.

Oggi l'associazione Babele, che si è occupata di centinaia di profughi, li radunerà tutti in piazza: l'obiettivo è trovare una casa per chi non ha nessuno che offre ospitalità. "C'è una scuola in disuso in città. Aiuteremo i ragazzi ad occuparla - rivela Enzo Pilò, presidente di Babele. "In questi due anni, in Italia, sono state create le premesse per trattare questi profughi come i nuovi clandestini: Nardò, Foggia e tante altre campagne del sud d'Italia, a reclutare il loro lavoro in nero. La scarsa assistenza dello Stato ha vanificato tutto l'impegno delle associazioni ed ha reso ancora una volta i migranti schiavi."

Per questo Babele ha deciso di uscire dal sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). Una rete di associazioni e cooperative sociali che opera con contributi del ministero dell'interno: 9 milioni nel 2012. Per gestire un'emergenza però non risolta: lo SPRAR ha bisogno di almeno 7mila posti per i rifugiati ma può permettersene solo la metà.