La metro C di Roma non aprirà sabato 11 ottobre. Parlando con l'Espresso a fine luglio, l'assessore alla mobilità Guido Improta ci aveva, come si dice, messo la faccia sul rispetto della scandenza. Il coraggio è da apprezzare. Le conseguenze dovrebbero essere le dimissioni.
Certo non è colpa di Improta se il progetto è fatto male, se è costato troppo, se è in ritardo, se il treno driverless ha improvvisamente bisogno di un driver (sarebbe l'autista), se il consorzio Metro C guidato dall'ottavo re di Roma Francesco Gaetano Caltagirone si è messo di traverso magari per semplice ripicca o per spiegare al sindaco chi comanda davvero in vista del nuovo accordo sul tratto della Metro C che dovrebbe arrivare fino a Prati. L'interesse dei cittadini? Non pervenuto.
Con ciò non si vuol dire che sia colpa di Caltagirone o del sistema driverless o dei progettisti. La colpa non è di nessuno, come al solito nelle storie italiane di grandi infrastrutture.
E non è colpa di nessuno perché sono tutti d'accordo, perché le opere pubbliche sono il sistema più semplice per finanziare in modo occulto le imprese, la politica e i professionisti di fiducia della politica.
Mentre l'Italia corre appresso ai piccoli privilegi delle comunità montane e dei consiglieri provinciali, ai concorsi truccati per tre posti da vigile urbano a Roccacannuccia, le casse dello Stato si svenano da decenni versando decine di miliardi di euro sui conti delle imprese che oggi ripagano la cortesia lamentando l'impossibilità di lavorare in Italia, accusando i burocrati e magnificando le commesse prese all'estero dove, per inciso, siamo riusciti a mandare in ritardo anche il raddoppio del canale di Panama.
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Almeno ci fosse stato un ritorno per il contribuente. Niente. Solo cantieri infiniti, code e promesse non mantenute per arrivare nudi a una meta deludente.
Quello che doveva aprire l'11 ottobre era un troncone di metropolitana piantato nel nulla, senza interscambi con le altre due linee romane, con treni ogni 12 minuti e con la conclusione del servizio fissata alle 18.30, un orario di fine lavoro da contadino del Medioevo. Più o meno l'epoca dove si è fermata la classe dirigente in Italia.