Iniziava sempre con la storia del giornalismo. Le gazzette del Seicento, le linotype, ma specialmente gli anni Settanta in Italia e l’integrazione multimediale degli ultimi decenni. Non parlava di giornalismo, bensì di “giornalismi”. E lo faceva con la stessa naturalezza con cui si raccontano le vacanze al mare o l’ultimo film visto al cinema.
Ci diceva di studiare, che per lui voleva dire leggere, guardare, assorbire l’informazione. Di ogni genere e con ogni mezzo. «Piuttosto rubateli i giornali, se non avete i soldi per comprarli. E che ci vuole? Uno distrae l’edicolante e gli altri prendono i quotidiani». Ovviamente scherzava. «Prof, ma quando studiamo se siamo tutto il giorno al master?» «Quando studiano tutti. Di notte, no?».
I suoi erano tutti consigli utili, alcuni persino legali. Per esempio: non plagiare. Per quelli che hanno usufruito delle penne altrui, la sorte non è stata tenera. Il Prof. Agostini lo scopriva sempre. Forse conosceva un codice segreto tra le facce degli studenti e ciò che avevano prodotto, o dichiarato. Di certo usava gli strumenti tecnologici meglio di noi ventenni e per lui studiare significava anche questo. Non rimanere indietro, non adagiarsi sulle conoscenze già acquisite e sulle pratiche ormai usuali. «Presentatemi un’idea mai vista né sentita». «Di che tipo Prof?», chiedevamo noi perplessi. «E su ragazzi, non guardatemi con quelle facce da pesci lessi. Se lo sapessi non ve lo chiederei».
Odiava i punti esclamativi, le emoticons e tutto ciò che, a suo parere, serve solo a chi non sa scrivere. «Se sei capace di esprimere un concetto non hai bisogno degli effetti speciali».
Ma gli effetti speciali a lui non mancavano comunque, specialmente quando, con il viso rosso come le mele del suo Trentino e un sorriso furbo, ci implorava di interrompere la lezione per fumare una delle sue innumerevoli sigarette.