«Io non sono molto devoto, perché la mia religione in realtà è la musica, ma riconosco di dovere al cattolicesimo parte della mia educazione, mio padre si è pure fatto un tatuaggio di Padre Pio sulla schiena per ringraziarlo di come sono oggi», ci racconta a Roma, poche ore prima del concertone del Primo Maggio.
Toccherà tenerla d’occhio, la parabola di questo ragazzino salernitano dagli occhiali grandi, i vestiti larghi e il sorriso buono, che è nato ai bordi di periferia come Eros Ramazzotti (che ha già collaborato con lui, come anche Federico Zampaglione e Enzo Avitabile). Non solo perché vanta già 650mila fan su Facebook, perché ha vinto Sanremo Giovani o perché il suo “‘A verità” (Sony Music), metà in dialetto e metà in italiano, è stato l’album che quest’anno ha venduto più copie nella prima settimana di uscita. Ma perché la consapevolezza e la passione con cui parla, che è la stessa con cui scrive da solo, «dalla prima all’ultima riga», i testi delle sue canzoni, fanno pensare che sarà tutto fuorché una meteora.
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C’è in lui la rabbia e l’orgoglio di un ragazzo del Sud, che gli sono valsi la vittoria a Sanremo con la commovente “Nu juorno buono” («Questo posto non deve morire, la mia gente non deve partire, il mio accento si deve sentire»). C’è, nella canzone “’A verità”, la difesa degli immigrati («Simmo pronti a fa’ na predica, ma nun pensammo a quanno simmo gghiute noi in America») e la denuncia dell’assenza dello Stato («Sti scole so’ fraciche stanno cadenno ’e mura, ’o Stato nun fa niente, c’hanno abbandonato»). C’è, soprattutto, la lotta contro la camorra, dal grido di dolore per i tumori nella “Terra dei fuochi” all’attacco verso chi parla il linguaggio della violenza, che «è stata sempre il metodo di chi non ha cervello».
Sono quattro le fonti della sua educazione, ci dice questo diciottenne che all’anagrafe fa Rocco Pagliarulo ed è nato a Pastena, quartiere popolare di Salerno. Forse non la scuola, visto che si è diplomato in ragioneria dopo essere stato bocciato due volte e aver recuperato gli anni grazie alla paritaria. Ma sicuramente, anzitutto, la sua sacra famiglia, ovvero il padre operatore ecologico e la madre casalinga che a Sanremo lo accompagnavano ovunque («Non vi permetto di ridere», si è fatto serio a “Che tempo che fa” quando il pubblico ha sghignazzato davanti al fermo immagine della madre pazza di gioia per la sua vittoria). La seconda è la strada, che gli ha insegnato «l’arte della sopravvivenza, molto utile anche nella giungla del mondo discografico». La terza è la pescheria di zio Franco, dove ha lavorato due anni, imparando a pulire il pesce: «Oggi che devo andare anche nei grandi ristoranti mi diverto a vedere i ricchi ordinare i crudi senza che sappiano minimamente che pesce siano». La quarta maestra di vita è, ovviamente, la musica: «Mi ha colto molto presto, mi ha dato un obiettivo e una professione, togliendomi così da una strada in cui alcuni miei amici avevano cominciato a fare delle scelte poco sagge».
La camorra non è mai entrata direttamente nella sua vita, ma la canzone sulla “Terra dei fuochi” è diventata già un manifesto per chi la combatte: «Sono felice, perché mi arrivano tante lettere, nelle scuole gli dedicano temi e video, e alcuni ragazzi sono andati a cantarla sotto casa della madre di Don Peppe Diana nel ventesimo anniversario della sua morte. La camorra è ovunque, attecchisce ovunque ci sia disonestà. Dobbiamo cambiare i comportamenti partendo dalle piccole cose, dal tassista che ti ruba un euro al commerciante che “sbaglia” nel darti il resto. Non penso che la mia musica convertirà i camorristi, ma sicuramente è semplice e quindi sa arrivare a tutti, dal figlio del boss a quello del dottore».
Il suo impegno sociale è nato molto prima di Sanremo, e infatti ricorda con orgoglio che Saviano («Roberto, se posso permettermi di chiamarlo per nome») citava da tempo le sue canzoni: «Ho tenuto concerti no profit a San Cipriano d’Aversa e Casal di Principe, due anni fa ho insegnato in un corso di rap nel carcere minorile di Airola». Racconta che a Napoli lui e il suo amico e collega Clementino vengono ringraziati per strada da madri commosse perché hanno tolto la musica neomelodica dalle cuffiette dei loro figli: «È un orgoglio per me. Non voglio generalizzare, ma certe canzoni neomelodiche sono delle pagliacciate, come “A me me piace ’a nutella”, o che rafforzano lo stereotipo del boss camorrista».
Ha fatto scalpore, “Rocchino”, anche perché, dopo aver cantato che «se tifi un’altra squadra sei lo stesso mio fratello», ha detto no alla proposta di Aurelio De Laurentiis di scrivere il nuovo inno del Napoli, perché non è proprio un gran tifoso di calcio. Ma lo sa dire il nome di un giocatore del Napoli? «Lorenzo Insigne». Risposta preparata? «No, è che l’ho conosciuto davvero. Però il calcio lo seguo poco, anche perché le curve mi pare che vadano nella direzione opposta alla mia. “Napoli merda”, “Salernitana merda”, “Avellino merda”? Ragazzi, ma se siamo tutti campani, ma che senso ha? Ma diciamo “merda” a chi ci ha ridotto così, alla camorra, a chi vuole separare l’Italia, no?».
Quando gli chiediamo se preferirebbe una cena con Maradona o con Pino Daniele all’inizio esita, ma poi s’illumina: «Pino Daniele è un mito. Però dopo Sanremo in tanti si sono congratulati con me, come ad esempio Jovanotti, e mi hanno chiamato pure Gigi D’Alessio e Nino D’Angelo, ma lui no, mannaggia». Altre cose in ordine sparso su “Rocchino”: è single e ora come ora non ha tempo per una ragazza (nelle canzoni canta amori seri, pure troppo: «Mi innamorai dei suoi discorsi, non dell’apparenza. La classica ragazza seria che sa ciò che vuole, quella che non te la dà, se si affeziona ti dà il cuore»), l’unica vacanza l’ha fatta a Amsterdam per girare un video («Ma ora sono in partenza per la Giamaica, sempre per un video»), è stato bocciato pure all’esame per la patente («C’è chi mi suggerisce di comprarmela, ma è possibile che sono riuscito a vincere Sanremo e non supero quel maledetto esame?»), vorrebbe imparare a suonare il pianoforte, alcune sue canzoni verranno usate ora nella serie tv “Gomorra”, il suo film preferito è “L’odio” di Kassovitz e l’ultimo libro letto è la biografia di Gandhi.
La forza dei suoi testi sta in un mix di denuncia e di speranza: «Noi del Sud siamo pieni di ambizione, ma dobbiamo combattere contro la nostra stessa ignoranza». Interrogato sulla politica, ammette di essersi distratto un po’ negli ultimi mesi, e nelle sue rime c’è un vago sentimento antipolitico che di questi tempi si porta molto. Insomma chi voterà? Grillo? Renzi? Rocco Hunt fa una faccia come a dire “boh”, e poi se la cava citando il suo mito, il rapper americano Nas: «“Nessun presidente mi rappresenterà mai”. Lui parlava per i neri, ma vale anche per noi giovani meridionali, noi siamo i neri d’Italia».