Parlano i lavoratori della catena laziale di 'super'. I licenziati hanno deciso di essere in prima fila nel processo per bancarotta fraudolenta contro chi, per anni, ha falsificato i bilanci e stornato cifre, secondo l'accusa, di più di quaranta milioni.  E dicono: "Non ci siamo fidati. Ora rivogliamo tfr e stipendi arretrati"

Le prime avvisaglie le ha avute Marilisa, sommelier al reparto vini del Gusto Sidis di Latina, quando i fornitori hanno cominciato a farle vedere le date degli assegni con cui venivano pagati: che si dilatavano, da 30, a 60 e poi a 90 giorni; finché i pagamenti non sono arrivati più. Monica, dal bancone della panetteria dello stesso supermercato, ha fiutato il peggio quando ha visto fornai arrivare con le lacrime agli occhi, costretti a chiudere perché non venivano pagati da mesi. Segnali esplosi poi nel giorno del “fuori tutto”, col quale la rete dei 18 supermercati posseduti dal gruppo Midal nel Lazio (tra le province di Roma, Latina e Frosinone) ha preannunciato la chiusura.

Ma non è una “ordinaria” storia tra le tante, nella nostra lunga crisi economica e nel crollo dei consumi che ne è seguito: il crac della rete Midal del basso Lazio, deflagrato nel 2011, si è trasformato subito in una storia penale, con un processo per bancarotta fraudolenta a carico di proprietari e amministratori.

Nel quale Marilisa, Monica e un’altra trentina di dipendenti si sono costituiti come parte civile: la loro presenza nel processo è una novità storica (è successo solo un’altra volta nei tribunali italiani, per il crac Agile-Eutelia, un’altra vicenda passata dalla cronaca economica a quella criminale), confermata il 15 gennaio dal tribunale di Latina, che ha respinto le eccezioni degli imputati della bancarotta. Così gli ex dipendenti Midal parteciperanno, come parti civili, al processo a carico dei loro datori di lavoro: messi sul lastrico da quella che sembrava una florida catena distributiva, chiedono il risarcimento dei danni morali, da sommare agli arretrati su stipendi e liquidazioni che gli spettano. 100mila euro a testa, da prendere dal tesoretto nascosto dai presunti bancarottieri.

Marilisa Spirito, la sommelier che ha visto svuotarsi gli scaffali dei vini, ha guidato quelli che in tutta la zona sono noti come “i ribelli della Midal”. Quelli che non hanno creduto alle rassicurazioni della proprietà – “sarete tutti riassunti dai nuovi gestori” –, non hanno firmato l’accordo con il quale l’azienda voleva mandarli a casa facendoli rinunciare a ogni azione futura, e hanno animato la protesta.

“La cosa ci puzzava, i supermercati erano pieni e si vendeva, non capivamo il perché di strani movimenti. Hanno negato ogni difficoltà fino a pochi giorni prima, alle nostre domande rispondevano che tutto andava bene, per questo non gli credevamo più” racconta Marilisa. L’apertura del processo per bancarotta fraudolenta, a carico della proprietaria e presidente Rosanna Izzi, dell’amministratore delegato Paolo Barberini (businessman potente, fino a pochi mesi prima presidente di Federdistribuzione, la Confcommercio della grande distribuzione organizzata) e di altri dieci imputati, le ha dato ragione.

Secondo l’accusa della procura di Latina, i vertici della ex Midal per anni hanno falsificato i bilanci e distratto fondi, per cifre consistenti, superiori ai 40 milioni. E queste condotte andavano avanti già dai tempi in cui, dietro le casse e i banconi dei supermercati, tutto sembrava filare liscio. «Facevamo incassi paurosi, ci sentivamo in una botte di ferro», racconta Monica Segala, per sei anni al bancone dei “freschi”. Lei era entrata come interinale, e quando ha avuto l’assunzione a tempo indeterminato ha festeggiato: «Pensavo che ormai mi ero sistemata per la vita, era una catena importante, e si vendeva bene. Per un periodo ero responsabile del banco, facevo gli ordini, e vedevo gli incassi a fine giornata: a gonfie vele». Ma a un certo punto sono cominciati i guai. «Hanno cominciato a pagarci in ritardo. E a non pagare gli artigiani, quelli che ci portavano il pane, i dolci, i cibi pronti». Gli scaffali e i banconi hanno preso a svuotarsi. Ma la gente veniva lo stesso: «Alcune volte ci siamo messi a cucinare noi, abbiamo preso farina e uova e zucchero dagli scaffali e abbiamo fatto dei dolci, per mettere qualcosa nel bancone». Tutto inutile. La Midal, la holding che controllava quel piccolo impero, non c’è più.

Nei negozi, dov’è andata bene, sono arrivati nuovi gestori con nuovi marchi, assumendo in alcuni casi gli ex dipendenti Midal «ma con contratti a tempo e stipendi più bassi». Molti hanno perso anche il Tfr, come Marilisa, che l’aveva affidato all’azienda che doveva affidarlo a un fondo: svanito.

Che succede, dopo un crac del genere, a quelli che la bancarotta avevano cominciato a intravederla dietro i banconi? Di solito è il curatore del fallimento che alla fine rimborsa i creditori: e i lavoratori sono tra questi, con credito privilegiato. Ma i ribelli della Midal hanno trovato un modo per piazzarsi in prima fila nel processo. «Di norma, in questi casi la parte offesa è la curatela fallimentare», spiega l’avvocato Guglielmo Raso, che difende i ribelli: cioè, dovrebbe essere il curatore del fallimento a costituirsi come parte civile. Ma possono costituirsi anche le singole persone danneggiate, se non lo fa il curatore oppure se c’è un danno morale derivante specificamente dalla bancarotta.

E a questa norma la difesa si è agganciata, chiedendo e ottenendo la costituzione di parte civile dei licenziati.

Che ora cantano vittoria per la conferma del loro diritto a stare nel processo, per vedere chiaro in quei conti che tante volte gli sono passati sotto il naso e – chissà – riuscire a recuperare qualcosa dal tesoretto, se mai sarà trovato.