Più di ventimila manufatti dell'antica Roma e della magna Grecia. Tra statue, vasi, anfore, sarcofagi, capitelli. Nascosti nei sotterranei del Museo archeologico. E nessuno può vederli

Nel panorama di rappresentazioni e conoscenze che comunicano i grandi musei, quello Nazionale archeologico di Napoli occupa un posto particolare. Meta privilegiata del Grand Tour, per la sua storia e le collezioni uniche al mondo ha difatti contribuito alla formazione della stessa cultura europea. Ma oggi, gran parte di quelle opere non sono più visibili. I moderni criteri di riordino hanno imposto maggiori spazi per il pubblico e l’esposizione degli esemplari più significativi per ogni repertorio; così, rispetto alle circa 8000 opere che si possono ammirare, un numero tre volte maggiore giace nei depositi. E sono questi ambienti - un altro, eccezionale museo - che “l’Espresso” può documentare per la prima volta.

La visita inizia nei sotterranei, grandi vani coperti da volte a botte: sono le cave dove è stato recuperato il tufo utilizzato per la costruzione dell’edificio, così come è avvenuto in gran parte delle case napoletane del centro storico.

[[ge:rep-locali:espresso:285151208]]I reperti qui conservati sono di varie tipologie: cippi che delimitavano gli assi viari agricoli, sculture di piccole dimensioni che ornavano case e giardini, iscrizioni relative a monumenti pubblici e privati - da aggiungersi a un cospicuo numero sparso in più locali - come quella dedicata dagli abitanti di Nocera a tale Marco Irzio, nativo di Stabiae (oggi Castellammare di Stabia). Da una parte sono stipate anfore in file sovrapposte, che ricordano le stive delle navi romane; dall’altra, su una lunga mensola si trovano piedi, braccia, teste di marmo con i perni di ferro che servivano all’assemblaggio delle statue.

Tra materiali rinvenuti in scavi recenti e matrici di calchi, ci sono pure enormi capitelli che dovevano servire a un ignoto monumento borbonico mai realizzato. Sono luoghi dal fascino particolare, peccato che siano interdetti al pubblico; ma la responsabile Valeria Sampaolo, al momento, ne esclude l’apertura: «Ho sempre desiderato intervenire per la fruizione dei sotterranei con sistemazioni più appropriate. Purtroppo, è mancata la manodopera per realizzare un progetto del genere».

Torniamo al pianoterra. Lungo la galleria intorno al cortile occidentale, alcune stanze nascoste agli sguardi conservano una miriade di sculture. Troviamo subito un ritratto dell’imperatore Vespasiano e due enormi sarcofagi in marmo, poi, tra gli altri, un cavallo scalpitante di bronzo dalla storia particolare. Faceva parte della quadriga posta sul teatro di Ercolano, l’edificio scoperto per caso che diede inizio agli scavi della città, ed è il risultato di un restauro settecentesco che aveva usato materiali non pertinenti, con aggiunta di gesso. Perciò Winckelmann, appena lo vide nella reggia di Portici, lo definì “idropico”: sotto l’acqua, si gonfiava.

Entrando nell’ultimo ambiente, si può immaginare di assistere a una surreale scena teatrale. Protagonista, al centro, è Giove; ai suoi lati, Apollo citaredo con abito lungo e Marte (o il re Pirro); raffigurazioni di sacerdotesse e notabili suggeriscono l’idea di un coro, mentre, in un angolo, tanti busti di uomini, donne, bambini e personaggi imperiali sembrano gli spettatori.

I grandi spazi riservati alla salvaguardia degli affreschi sono invece all’insegna dell’ordine. Siamo al terzo piano, quello degli uffici. I dipinti sono disposti su scaffalature e protetti da “tessuto non tessuto”, con sopra l’immagine corrispondente e il numero di inventario. Come la maggior parte dei reperti provengono da Pompei, Ercolano, Stabiae, e hanno contribuito con la loro quantità alla conoscenza della pittura romana, consentendo nel 1882 allo studioso August Mau di suddividerla nei cosiddetti “Quattro Stili”.

Insieme ai dipinti vesuviani, vi è custodita una decina di esemplari che ci riporta alla formazione del Museo nazionale. Provengono dalla “Domus Transitoria” di Nerone sul Palatino, la prima estensione della reggia imperiale, e facevano parte del triclinio interrato, ancora visibile in parte. Dal Cinquecento questo colle di Roma era proprietà dei Farnese e nel 1731, per eredità, la vasta collezione di opere d’arte della famiglia passò ai Borbone che regnavano su Napoli. Così, il patrimonio archeologico e pittorico, disseminato fra Terme di Caracalla e palazzi, trionfa oggi in questo museo (la quadreria è stata spostata a Capodimonte) con la rara serie di gemme e le statue colossali del Toro e di Ercole. Proprio davanti al rappresentante divino della forza è ambientata una scena del film “Viaggio in Italia” di Roberto Rossellini, con una Bergman che appare come intimorita. È solo grazie ai contratti di prestito di opere richieste in tutto il mondo per mostre su Pompei, che si possono restaurare tanti affreschi e statue che le risorse finanziarie non consentono di fare con regolarità. Di recente, ad esempio, il Getty Museum ha ripristinato la celebre statua di Apollo, dal tempio omonimo di Pompei, ora esposta al Museo nella mostra: “Augusto e la Campania” (fino a maggio).

Nella congerie di manufatti di ogni tipo - altri oggetti preziosi sono nei caveau - non si incontrano, perché tutti in vista, mosaici e oggetti erotici. Questi ultimi, solo dal 2000 riuniti in un’apposita sezione aperta al pubblico, costituivano il “Gabinetto segreto” o “Degli oggetti osceni”, che attirava studiosi e curiosi da ogni parte, ammessi solo di rado e con permessi speciali. Fu Giuseppe Garibaldi il primo ad aprirlo senza limiti ai visitatori e, non trovando le chiavi, fece rompere le serrature. Ma quello che riserva la sommità del Museo sorprende ancora di più. Si tratta di depositi davvero unici realizzati alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, e si capisce perché i funzionari li definiscono “Sing Sing”: attraverso una passerella sul tetto, si entra in un corridoio che sembra un carcere.

Lungo i lati, si affiancano delle camere chiuse con tanto di grata e catenaccio, che custodiscono il surplus di oggetti di uso quotidiano, recuperati negli scavi delle città sepolte dall’eruzione del Vesuvio nel 79 dopo Cristo. Ogni cella è riservata a “prigionieri” della stessa categoria: una serie sterminata di esemplari recuperati in domus, fattorie, luoghi di ristoro. Il bronzo è dominante: nella cella di bracieri, bacili, scaldavivande, cerniere di porte e portoni, o in quella che raccoglie pentolame e calderoni dal diametro di oltre un metro, oppure dove un’infinità di candelabri dai piedi più o meno lavorati condividono lo spazio con le bilance. Sono gli oggetti di vetro ad offrire un colpo d’occhio diverso e, anche in questo caso, grandi numeri e varietà di forme: bottiglie oblunghe, quadrate, boccette per unguenti e balsami, piatti, urne funerarie.

Un altro vano è riservato agli strumenti chirurgici e al maquillage, in compagnia delle statuette delle divinità domestiche. Di fronte, sono ammucchiati vasi, vasetti, brocche di terracotta non dipinta, di uso comune, che era utilizzata per versare il vino nelle osterie o conservare cibi e condimenti, come il “garum”, la salsa di pesci macerati che era la specialità di Pompei.

In fondo al corridoio, un’altra ampia cella contiene un migliaio di “prigionieri” eccellenti. Vi è collocata la collezione vascolare, relativa alla produzione magnogreca e campana. Davanti, spiccano quattro monumentali crateri a volute, dipinti con scene tratte dal mito greco e attribuiti a botteghe di ceramisti famosi. Nell’edificio, prima sede della Regia Università, ai beni artistici dei Farnese e ai ritrovamenti dell’area vesuviana, si sono infatti aggiunti raccolte private e importanti reperti dell’Italia meridionale, quando non esistevano ancora in tante regioni istituzioni adeguate per la tutela. Per soddisfare curiosità e documentare la genesi del Museo, la responsabile pensa di organizzare nella bella stagione delle visite guidate proprio a “Sing Sing”; ma «alla luce delle lanterne, per dare l’idea di una scoperta d’antan».

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