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Tra i miliziani dell’esercito nero che sta seminando il terrore in Siria e in Iraq, da un paio di mesi sembrano aver trovato spazio altri due «combattenti stranieri» partiti dall’Italia. Per quanto se ne sa, sono i più giovani integralisti che abbiano mai scelto la strada del jihad nel nostro Paese. Almeno uno di loro, il più duro, si è radicalizzato in un luogo in teoria deputato a fermare ogni violenza criminale: un carcere simbolo come quello di San Vittore a Milano.
I due ragazzini-soldato si chiamano Monsef e Tarik e sono da poco maggiorenni. Nati in due diverse città del Marocco, erano arrivati in Italia da bambini, separatamente. Insieme hanno fatto le scuole medie a Milano, dove hanno ancora decine di amici. Attorno al 2010, quando avevano poco più di 14 anni, sono rimasti senza famiglia, uno dopo l’altro, per dolorose ragioni private. A quanto raccontano loro stessi su Internet, a quel punto è intervenuto il tribunale dei minori, che li ha affidati a una delle migliori comunità di accoglienza dell’area milanese, fondata da un sacerdote cattolico e diretta da personale specializzato italiano.
Fino all’anno scorso, nessuno dei due ragazzini sembrava interessato a questioni religiose e tantomeno alle armi. Dopo tanti anni di lontananza dal Marocco, con pochi e difficili rapporti con le famiglie d’origine, ormai sembravano due giovani occidentali: vestivano come i loro coetanei milanesi, usavano Internet per scambiarsi innocui video musicali, battute di comici, foto di ragazze, messaggi tra amici. Il più giovane, Tarik, viene descritto da chi lo frequentava come un ragazzo pacifico, sensibile, un po’ timido, che non ha mai creato problemi a scuola o nella casa-alloggio per minori dove ha vissuto per anni. Monsef invece tendeva a fare il ribelle. Sfidava le regole, violava i precetti del buon musulmano, beveva alcolici, si atteggiava a bullo. Circa un anno fa è finito in un giro di droga. Dopo aver compiuto diciotto anni, è stato arrestato. E rinchiuso a San Vittore. Dove molto probabilmente ha trovato qualcuno che lo ha cambiato. Un cattivo maestro del jihad “made in Italy”.
Di certo, quando esce dal carcere di Milano, Monsef è trasformato. Non beve più, condanna ogni tipo di droga, ha smesso anche di fumare sigarette. Prega cinque volte al giorno. Parla solo del Corano. Cerca di indottrinare i coetanei predicando una visione integralista che è estranea alla tradizione musulmana moderata che caratterizza il Marocco. Prima dello choc di San Vittore, dice chi lo conosce, Monsef non era certo il tipo da fare discorsi religiosi: è il carcere che lo ha trasformato. Ma in cella quel ragazzino non aveva cellulari o computer, per cui non poteva collegarsi a Internet per subire l’influenza di lontani predicatori jihadisti. Dunque è stato radicalizzato da qualche altro detenuto. Che forse è ancora all’interno di San Vittore.
Fatto sta che, quando viene scarcerato, Monsef usa Internet in modo molto diverso da prima. Circa sei mesi fa comincia a scaricare e diffondere inni alla guerra santa. Tra ottobre e dicembre rilancia su Facebook «il video dei combattenti stranieri che bruciano i loro passaporti per creare uno Stato Islamico»; invita a «vedere» i fotomontaggi con le bandiere nere del Califfato che sventolano sul Colosseo o sulla Torre Eiffel; consiglia i sermoni incendiari di un predicatore saudita bandito dalla Gran Bretagna: «Siria, la vittoria sta arrivando».
Nella lista dei preferiti inserisce «l’organizzazione Stato Islamico». E clicca «mi piace» sull’appello di uno sceicco kuwaitiano contro il dittatore siriano: «Dove sono le vostre armi? Perché non sostenete il jihad contro il nemico Assad?». Non manca un “selfie” di Monsef in tunica nera e copricapo bianco che punta un indice accusatore. Tra gli amici musulmani di Milano, solo Tarik si fa influenzare dal suo compagno di scuola e di comunità.
I due ragazzini organizzano il viaggio in silenzio, ai primi di gennaio, negli stessi giorni degli attentati di Parigi: stragi organizzate da terroristi nati in Francia, radicalizzati in carcere e addestrati tra Siria e Yemen. Probabilmente seguono la stessa rotta di decine di altri jihadisti partiti dall’Italia: un biglietto aereo per Istanbul, il veicolo di un fiancheggiatore per varcare il confine. Quando entrano in Siria, hanno appena 19 anni. Il 18 gennaio, alle 23.31, Monsef mette in rete una foto: è con l’amico su un pullman. Il messaggio è eloquente: «Verso la strada di Allah». Il giorno dopo, spiega di aver «incontrato un fratello che ci ha aiutato: è veramente un leone, che Allah lo benedica». Un amico con un nome arabo gli scrive preoccupato in italiano: «Ma dove sei?».
Poi c’è un black-out che dura due mesi e mezzo. Le indagini internazionali spiegano che le reclute del Califfato in arrivo dall’Europa vengono messe sotto esame e poi smistate in diversi campi di addestramento specializzati: per i più giovani e inesperti, da mandare in guerra come carne da cannone, il “corso” di combattimento dura solo 45 giorni. In quel periodo cellulari e computer vengono sequestrati dai capi istruttori dell’esercito nero.
Monsef ricompare su Internet l’undici aprile 2015. Nella prima foto è da solo, seduto in un veicolo militare, con un kalashnikov tra le braccia. Nella seconda, che diventa il suo profilo su Facebook, è in piedi, vestito di nero, con il mitra in spalla e un pugnale alla cintola, accanto a un altro guerrigliero armato in tuta mimetica. Le sue foto con il kalashnikov “piacciono” a otto “amici”, tra cui una donna che vive in Piemonte e un ragazzo che si firma con un nome arabo ma scrive in italiano: «Allah è grande».
Interpellati da “l’Espresso”, i responsabili italiani dell’antiterrorismo si limitano a dire che «erano già informati» della vicenda di Monsef e Tarik, ma non possono fornire particolari perché c’è un’inchiesta in corso. A Milano la Procura indaga da mesi su diverse organizzazioni di reclutamento. I carabinieri del Ros seguono le tracce di una donna di origine albanese che ha lasciato il marito, immigrato regolare a Lecco, per fuggire in Siria con il figlioletto maschio di pochi anni.
I poliziotti della Digos indagano su una spaventosa rete jihadista che punta a reclutare per la guerra in Siria anche italiani convertiti all’Islam: uomini e donne da immolare al Califfo. In questi giorni i due ragazzini partiti dalla Lombardia hanno pubblicato un’altra foto dal fronte siriano. C’è una mano che mostra un documento plastificato, intestato a Monsef: nome, cognome, luogo e data di nascita, rilascio e scadenza, gruppo sanguigno. In alto c’è il simbolo dell’autorità che ha emesso il documento: «Stato Islamico».