Le avances insistenti, le battute o i gesti degradanti di un capo, o un collega, in ufficio, sono molto più diffusi di quanto non sembri. Semplicemente perché "in Italia l'asticella è molto alta. La maggior parte delle donne sopportano, e stanno zitte. E la precarietà, di certo, non aiuta". Tatiana Biagioni, presidente degli avvocati giuslavoristi italiani, racconta cosa dovrebbe cambiare
Sono le avances indesiderate e insistenti; sono i colleghi che sbirciano ridendo da sotto le scale; sono i dirigenti che fanno scivolare le mani dove non vorresti; sono le battute su “chissà come ha fatto carriera quella lì”; sono gli insulti di un capo; sono la dignità che scivola; sono il silenzio. Le molestie sessuali sui luoghi di lavoro «sono un fenomeno
molto più diffuso e grave di quanto non appaia dalla rare statistiche a riguardo e dall'opinione comune», spiega
Tatiana Biagioni, presidente degli avvocati giuslavoristi italiani: «Molti comportamenti che per legge sono considerati molestie, e che di fatto lo sono, vengono liquidati in Italia come semplici “battute”. Che le impiegate continuano a subire in silenzio».
Tatiana Biagioni è un'avvocata - «ci tengo al sostantivo femminile, non per vezzo, ma perché fino all'800 la mia professione era vietata alle donne, ed è giusto ricordare il superamento di questo divieto» - che difende lavoratori e lavoratrici, e che presiede il
comitato pari opportunità dell'Ordine. È da questo osservatorio che racconta: «Mentre su altri temi, in una causa, ricevo dai miei colleghi avvocati risposte tecniche, dove potremmo dibattere per ore sull'interpretazione di un dettaglio, quando si parla di molestie sul luogo di lavoro la risposta più frequente è “
ma insomma, era solo goliardia”, “bisogna vedere il tono”,
“non era certo sua intenzione”. Anche in presenza di insulti pesanti, di riferimenti sessuali espliciti, di comportamenti ripetuti, da parte di un dirigente a una sottoposta».
La differenza, spiega Biagioni, sta fra il considerare le molestie una questione rilevante dal punto di vista legale oppure abbassarle a fenomeni di «costume», quando questo “costume”, spiega, «può significare per molte donne l'accettare il
degradamento della loro vita: perché il lavoro sta alla base della costruzione della nostra autonomia, dello sviluppo della nostra personalità, ed è con profondissimo disagio che le vittime gestiscono e sopportano piccoli o grandi offese di genere, quasi sempre - quando accadono - ripetute nel tempo».
Così, continua l'avvocata, «Il problema resta completamente sottovalutato, perché la maggior parte delle violenze viene gestita in economia dalle donne, senza dirlo nemmeno a casa». E sì «che gli strumenti legali ci sarebbero, e ben chiari. Mancano però quelli culturali per riconoscere il fenomeno e contrastarlo.
C'è una censura a monte», ribadisce Biagioni: «Lo provo io stessa: ogni volta che sollevo la questione, mi viene risposto con una sorta di fastidio. Come se non fossero questioni importanti. Ora, io sono toscana, e non potrei vivere senza ironia.
Ma in un rapporto gerarchico una certa ironia diventa presto altro; diventa esercizio di potere».
Bisogna quindi imparare a riconoscerle, le molestie, in quanto umilianti «mancanze di rispetto». Ma deve cambiare soprattutto anche la cultura aziendale a riguardo: «Raramente ho visto le imprese farsi avanti. Nella maggior parte dei casi
la denuncia viene liquidata con una buona uscita. La vittima così se ne va. E il molestatore resta. Spesso la parte più difficile in questi processi è proprio trovare testimoni, infatti. Perché dall'alto non sono incentivati. E i colleghi temono per il loro stesso posto. Sapendo che». L'ultimo tassello infatti è sempre il contesto: «E la precarietà, la fragilità del mercato e dei rapporti di lavoro, non fa che accentuare il problema. Perché pur di non perdere ciò che hanno, molte più donne si troveranno costrette a tacere».