Dietro di lui c’è il fumo dei pozzi di greggio dati alle fiamme dall’Isis per rallentare l’avanzata dei nemici. A Qayyara c’è un check point dove arrivano i civili in fuga dai miliziani di Al Baghdadi. Da quando i soldati di Baghdad sono entrati a Mosul, il 1° di novembre, i fuggiaschi sono ancora di più. Alcuni sono trasportati in massa dai convogli militari, altri camminano per chilometri con le poche cose che sono riusciti a portare via dalle proprie abitazioni sotto il rumore dei combattimenti.
«Quando è iniziata l’offensiva contro l’Isis, gli uomini del Califfo hanno portato via tre delle mie sorelle», ci dice Fowsi. «Sono entrati in casa, costringendole a non uscire per usarle come scudi umani. Ma prima che il villaggio fosse liberato sono fuggiti portandole con sé. Non so più nulla di loro».
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Fowsi non ha paura di mostrare il suo volto. Racconta di aver vissuto nel terrore, di aver visto il suo villaggio diventare un inferno, di aver avuto paura di morire ogni giorno, costretto ad assistere ad esecuzioni pubbliche. Racconta di aver visto arrivare foreign fighters da ogni parte dell’Iraq, ma anche dall’Europa: «Pochi mesi dopo l’ingresso dei miliziani del Califfo, a Hood sono arrivati ragazzi tedeschi, alcuni francesi, e c’erano molti russi. Arrivavano dalla Siria o dai confini turchi e venivano portati nei campi di addestramento a Tel Afar e a Al Shora, dove imparavano a uccidere».
Violenza è la parola d’ordine di ogni racconto. Il giorno più violento, per Fowsi, porta la data del 17 dicembre scorso. «Ai nostri bambini è stata vietata la scuola fin dai primi giorni: le uniche scuole ammesse erano quelle islamiche, nelle case dei miliziani che educavano i ragazzi alla morte. Insegnavano loro come costruire bombe, spiegavano che l’unico modo giusto per morire era sacrificarsi per la causa del califfato. Tutte le famiglie che conosco hanno cercato di proteggere i propri figli da questo lavaggio del cervello, perché un bambino corrotto così profondamente nello spirito e nel cuore, è un bambino perduto. Un giorno, lo scorso dicembre, cinque bambini hanno cercato di scappare dai miliziani che li erano andati a prelevare a casa per costringerli a frequentare le loro lezioni. Sono stati catturati e uccisi: tre decapitati e due impiccati. Hanno esposto i loro corpi nella piazza del mercato, costringendo tutti noi ad assistere. Tutti i cittadini dovevano capire quale sarebbe stato il loro destino se avessero provato a ribellarsi. Alla fine hanno gettato i cadaveri dei bambini dal palazzo più alto della piazza». Fowsi abbassa lo sguardo, tace per alcuni secondi e sospira. «Il futuro rubato di quei cinque bambini non è solo colpa dell’Isis. La responsabilità di quello che abbiamo vissuto è anche dei tanti che hanno supportato e finanziato gli uomini del Califfo dal primo giorno di due anni fa».
Nelle parole di Fowsi c’è tutta la disperazione di oggi e la paura del domani. L’Iraq dell’offensiva su Mosul è l’anticamera delle guerre che verranno, già cominciate nei villaggi liberati: tra delatori, civili che si improvvisano informatori, servizi segreti e punizioni esemplari.
Nel check point di Qayyara i civili vengono smistati, gli uomini separati dalle donne e dai bambini, perché i soldati temono che tra loro possano nascondersi miliziani in fuga. È quello che accade, ad esempio, mentre Fowsi racconta la sua storia. Un pick up si avvicina al check point: l’esercito iracheno ha appena arrestato un giovane miliziano dell’Isis, Ali di 24 anni: è legato, bendato ed esposto dai generali come una conquista. Fuggito dal villaggio di Baakar, Ali si sarebbe infiltrato - dopo essersi tagliato la barba per nascondere la sua appartenenza a Isis - tra i civili in fuga da Al Shoura. I soldati gli urlano contro che è un traditore della fede; le donne intorno, ancora interamente velate, tengono gli occhi bassi.
Ma anche gli uomini hanno paura di parlare. Qualcuno, a voce bassa, trasforma la gioia della liberazione nella preoccupazione per il domani: «Siamo felici che i soldati facciano pulizia di questi assassini», dice un uomo tenendo stretto il figlio, «ma abbiamo paura che tra i loro informatori ci siano civili che vogliono vendicare le antiche rivalità nei villaggi, e in questo non c’entra niente l’Isis, le loro violenze, la loro follia omicida. C’entrano le infinite ritorsioni di tutti contro tutti. Perciò temiamo che vincere questa battaglia significhi solo preparare un’altra guerra civile».
LA CATASTROFE

Alla battaglia per Mosul - seconda città irachena che un tempo accoglieva curdi, sunniti, sciiti, cristiani - non seguirà la festa, ma un difficilissimo passaggio politico e militare. Le organizzazioni umanitarie si aspettano da questa offensiva almeno un milione di rifugiati interni che andranno a sommarsi ai 3 milioni e mezzo già presenti nel paese, circa un decimo dell’intera popolazione. Il destino di tutti è in mano a un mosaico di forze che oggi combattono, solo apparentemente, per una causa comune: l’esercito iracheno, i peshmerga curdi, le milizie sciite Hash ash Shabi (le più pericolose in campo) e una miriade di milizie locali, ognuna pronta a rivendicare il proprio potere. L’esercito, soprattutto, deve rimediare al collasso del giugno 2014, quando un battaglione di mille soldati dell’Isis entrò a Mosul vincendo una tiepida resistenza locale e costringendo alla fuga due divisioni dell’esercito, 30 mila uomini, posti a difesa della città.
In due anni lo Stato islamico ha imposto una rigida applicazione della Sharia, costretto alla fuga migliaia di cristiani confiscando loro case e denaro, distruggendo chiese e ogni luogo di culto e giustiziando tutti gli oppositori sunniti e sciiti. Filippo Grandi, Alto Commissario per i Rifugiati, durante la sua ultima visita a Baghdad, ha ricordato che «la protezione dei civili deve essere la componente più importante dell’operazione militare per liberare Mosul». Secondo l’Alto Commissariato per l’emergenza, a Mosul saranno necessari almeno 200 milioni di dollari. Attualmente, però, la raccolta fondi non supera il 38 per cento di questa cifra.
Intanto, in tutto il Kurdistan iracheno stanno sorgendo nuovi campi profughi. Al Khazir è uno di questi, si trova a est di Mosul, vicino a Bartella, uno dei villaggi cristiani recentemente liberati. Shaker Khalifa è arrivato al campo da una settimana con la moglie, il figlio adolescente e l’ultimo nato, un bambino di 4 anni. Viene da Tob Zawa, villaggio nei pressi di Mosul. Shaker prende una sigaretta dalla tasca, la accende lentamente e sorride. «Non ho potuto fumare per due anni. All’inizio ci multavano, 300 mila dinari iracheni, se ci scoprivano a fumare. Poi hanno cominciato con le punizioni corporali e gli arresti. Ci hanno costretto persino a buttare tutti i nostri abiti, non accettavano che ci fossero scritte in inglese o disegni che giudicavano blasfemi. Hanno distrutto tutte le tv, gli apparecchi elettronici, i telefoni».
A Tob Zawa, Shaker aveva un negozio dove vendeva profumi e detersivi. Prima gli hanno imposto di pagare una tassa mensile, poi l’ hanno costretto a chiudere perché vendere profumi era vietato dalla loro interpretazione della legge islamica. «Non sapevo più come sfamare la mia famiglia e ho ceduto loro tutto l’oro di mia moglie per poche migliaia di dinari. Non potevo scappare perché per lungo tempo, per il solo fatto di aver vissuto sotto Isis sentivamo di portare addosso il peso di uno stigma e temevo ritorsioni. Vivere lì o vivere fuori per noi rappresentava lo stesso pericolo».

I primi due figli di Shaker sono riusciti a fuggire a Erbil nel 2014, Ashraf, l’altro figlio era adolescente. La sua scuola, come tutte le altre, è stata chiusa.? Ashraf racconta che ogni venerdì i miliziani cercavano casa per casa tutti i ragazzi del villaggio per portarli in moschea e convincerli a unirsi a loro in nome di Al Baghdadi: chi rifiutava veniva trascinato in piazza e frustato di fronte a tutti. Una notte, dopo l’inizio dell’offensiva, i miliziani hanno bussato alla porta di Shaker: cercavano Ashraf perché qualcuno aveva detto loro che era una spia dei peshmerga.
«Mi hanno legato le mani dietro la schiena, mi hanno bendato e caricato su una macchina», racconta il ragazzo. «Per portarmi in uno dei tunnel che hanno costruito nel villaggio. C’erano armi e tutto il materiale per costruire bombe. C’erano anche letti, scorte di cibo e materiale medico. Ho pensato che quegli uomini avrebbero potuto vivere lì per settimane. Mi hanno costretto in uno dei cunicoli del tunnel per interrogarmi. Avevano saputo che i miei fratelli vivevano a Erbil e qualcuno aveva detto loro che si erano uniti ai peshmerga per combattere e sconfiggere il Califfo. Io continuavo a piangere e urlare che non era vero, che nessuno della mia famiglia combatteva contro di loro. Mi hanno torturato per ore con cavi elettrici e frustate». Il padre racconta che quando finalmente lo hanno liberato, la schiena di Ashraf era una mappa di sangue e ferite.
Prima per i civili la paura era essere puniti, arrestati o uccisi, oggi - a quasi un mese dall’inizio dei combattimenti - il dilemma è restare in casa ed essere tenuti ostaggio e usati come scudi umani o scappare e rischiare di morire sotto il tiro dei cecchini o su una delle centinaia di bombe lasciate dall’Isis per punire i civili in fuga e colpire i soldati.

Ma non tutte le storie raccontano una quotidianità di sospetto, paura e regole da rispettare. Per molti, la vita sotto l’Isis ha rappresentato, almeno all’inizio, un’esistenza più dignitosa di quella garantita dal governo. Mahkmoud è il più anziano tra i mille nuovi arrivati da Tob Zawa, siede all’esterno della sua tenda, intorno a sé molti capifamiglia del villaggio. «All’inizio i combattenti dell’Isis sono venuti da noi promettendo una vita migliore. Dicevano di voler tutelare il vero Islam, si sono presentati come liberatori e amici. Sostenevano i nostri ragazzi con uno stipendio mensile di circa 100 mila dinari, portavano il grano e il pane a tutte le famiglie in difficoltà».
Mahkmoud era benestante, aveva un’azienda agricola nel villaggio e ogni mese il 10 per cento dei suoi guadagni finiva nelle mani dell’Isis, prima per sostenerli, solo dopo per paura di essere ucciso. Descrive una vita di privazioni, ma con una iniziale, apparente stabilità. «Non avevo scelta, certo, ma per un periodo ho pensato fosse per una giusta causa, per il benessere che questi uomini promettevano di portare alla mia gente. Avevano distribuito a tutti i beni che avevano requisito ai cristiani e alla polizia irachena. Pensavo: se ci comportiamo bene e non facciamo nulla contro di loro, se non violiamo le loro leggi, possiamo cavarcela, non potrà essere un trattamento peggiore di quello che ci riservava il governo». Poi le cose sono cambiate, lo Stato islamico ha aumentato le tasse, diminuito le retribuzioni e il consenso ha cominciato a scemare. E più il consenso diminuiva, più le punizioni si facevano efferate. La repressione era all’ordine del giorno.
Aras non vuole mostrare il suo volto. Anche lui viene da Tob Zawa. Sua cugina quattro mesi fa è stata sorpresa con un telefono e condotta nel carcere del villaggio dalla Hasbah, la spietata polizia islamica. Lì le hanno strappato le unghie una a una. Poi l’hanno uccisa.
NON RIUSCIRE PIU' A DORMIRE

Il campo di Dibaga, alla periferia di Erbil, è una sterminata distesa di tende. Era stato pensato per ospitare non più di 28 mila persone, oggi ve ne sono 40 mila. Nelle tende sono costrette a vivere anche tre famiglie insieme, chi non trova posto dorme all’esterno a terra, l’acqua scarseggia e non ci sono servizi igienici a sufficienza. Spesso non c’è abbastanza cibo. «Le condizioni igieniche sono davvero preoccupanti», dice Giulia Cappellazzi, capo missione di “Un ponte per” in Iraq, «soprattutto per le donne che in questi due anni sono state costrette a una vita di segregazione e violenza. Abbiamo ascoltato centinaia di storie di donne vittime di abusi. Costrette a rinunciare alla propria vita e restare chiuse in casa nel timore che i loro mariti e i loro figli non tornassero a casa. Proprio per questo riteniamo che sia necessario aiutare queste donne a superare il trauma».
Le donne faticano a parlare anche con le psicologhe, hanno paura di ritorsioni, perché molti familiari sono ancora nelle zone controllate dall’Isis. Hanno timore persino di mostrare i loro occhi. Fatimah ha 25 anni, è incinta da due mesi e ha camminato sette ore per mettersi in salvo prima di raggiungere il campo di Dibaga. Una notte, pochi mesi fa, i miliziani dell’Isis hanno arrestato suo marito e suo padre, un ex ufficiale iracheno, li hanno portati in prigione e appesi al soffitto per due giorni.
Li accusavano di essere spie dell’esercito iracheno e di fomentare le sacche resistenza dei villaggi. Suo padre oggi non riesce più a muovere le mani. Suo marito si sveglia nel cuore della notte, urlando. «Non ero abituata a indossare il velo integrale, ma lo choc per me è stata l’imposizione dei guanti. Un giorno mi sono guardata allo specchio e non sapevo più chi ero. Non sapevo più chi fosse la donna nascosta da quel manto nero che significava solo dolore. Non potevo uscire di casa se non accompagnata da un parente di primo grado. Ci era vietato studiare, lavorare. Ci era vietato pensare. Non volevano cittadini. Volevano solo soldati disposti a morire».
Fatimah è riuscita a scappare un venerdì «durante l’ora di preghiera, perché era meno facile trovarli in strada. Sono uscita di casa certa di morire. Essere qui è un regalo». Aicha, invece, non vuole mostrare il suo volto, ha quasi 40 anni e quattro figli. Uno è morto quando casa sua è stata data alle fiamme, tre anni fa, da gruppi fondamentalisti già presenti a Bir Halan, il suo villaggio.
«Tutti conoscevamo le famiglie più estremiste intorno a noi, e quando sono arrivati a Bir Halan uomini da Tikrit e al Anbar, li chiamavamo “i turisti cattivi”. Mio marito lavorava per la polizia irachena, lo minacciavano continuamente. Un giorno sono andati nel suo ufficio, volevano chiuderlo. Gli hanno ordinato di alzarsi, uscire e non tornare più. Mio marito si è rifiutato. Io ero al mercato, per comprare qualcosa per il pranzo, quando mi ha chiamato una vicina gridando che casa mia era in fiamme. Sono corsa più velocemente che potevo, mio figlio era dentro, dormiva. Ho cercato di farmi spazio tra le fiamme per salvarlo, ma è morto». Il figlio di Aicha non ce l’ha fatta, lei porta sulle mani i segni delle cicatrici di quel giorno e i “turisti cattivi” sono diventati lo Stato islamico.
DUECENTO DOLLARI PER TENTARE LA FUGA
Yusef Sadi Latif ha 23 anni, ha vissuto a Qayyara sotto lo Stato Islamico per due anni. Voleva studiare e diventare medico, oggi vive nel campo di Jadaa, vorrebbe lavarsi e mettere abiti puliti, ma non ce ne sono. Suo cugino, Ibrahim di 19 anni, aveva problemi respiratori e fortissimi attacchi di asma. Un giorno Yusef lo ha accompagnato nell’o spedale di Qayyara per cercare delle medicine ma gli uomini dell’Isis gliele hanno negate, perché non tutti i membri della loro famiglia erano loro sostenitori e le poche medicine rimaste in città andavano garantite alle famiglie fedeli al Califfo. Gli altri venivano lasciati morire.
Infatti Ibrahim di lì a poco è morto e Yusef ha deciso che era meglio tentare di scappare che morire sotto lo Stato islamico. «Ho saputo che c’era una persona in città che di notte aiutava i civili a scappare, è un uomo in contatto con l’esercito iracheno, un loro informatore in città. Così un giorno mi è venuto a prendere a casa, mi ha nascosto per qualche ora finché non ha ricevuto una chiamata da un suo amico nella polizia, poi mi ha aiutato a passare. L’ho pagato duecento dollari. Grazie a lui sono salvo. Anche negli altri villaggi si stanno organizzando, ma qualcuno chiede fino a mille dollari e per molti è difficile procurarsi denaro contante».
Secondo le Nazioni Unite, dall’inizio delle operazioni militari si sarebbero moltiplicate le esecuzioni sommarie di civili in fuga nei villaggi ancora sotto il controllo dell’Isis. I miliziani avrebbero giustiziato 230 persone tra cui 190 ex membri delle forze militari irachene nella base militare di al Ghazlani e starebbero costringendo centinaia di famiglie a spostarsi dai villaggi circostanti per essere usati come scudi umani. I corpi dei civili giustiziati sono accatastati nelle piazza e nelle strade dei sobborghi e dei villaggi.
La battaglia di Mosul è dura e sanguinosa, l’Isis ha avuto tempo di trasformare la città in una trappola fatta di armi chimiche, kamikaze e cecchini sparsi ovunque. Il prezzo di sangue di questa guerra urbana sarà altissimo, l’Isis sa che non può vincerla, per questo vuole renderla molto dolorosa. Pochi giorni fa al campo profughi di Al Khazir sono arrivate due ragazze, una di loro è stata ferita da una mina. Una delle centinaia disseminate dall’Isis intorno ai villaggi. “Andare a morire” e “punire” sono le parole d’ordine di oggi. “Rappresaglie”, probabilmente, sarà quella di domani.