Per tutelare le risorse marine la Commissione Europea pensa di bandire alcuni tipi di catture. Come le sardine, i merluzzi e le triglie. Un'idea che piace agli ambientalisti ma mette a rischio migliaia di posti di lavoro

Una situazione drammatica. È quella che riguarda i pesci del Mar Mediterraneo, arrivati a un livello di sfruttamento da record e per questo al centro dell'attenzione degli esperti. Il 9 e 10 febbraio, a Catania, si terrà la Conferenza dell'Unione europea sullo stato degli stock ittici del Mar Mediterraneo. E i numeri che verranno discussi dicono che il settore, in cui l'industria italiana ha un ruolo preponderante, potrebbe subire un forte ridimensionamento.

Secondo gli ultimi studi dell’Ue, il 96 per cento degli stock ittici subisce una pressione di pesca tre volte superiore rispetto al livello sostenibile. I tecnici lo chiamano “Rendimento Massimo Sostenibile”: rappresenta la quantità di pesci che si può catturare, anno dopo anno, senza mettere a rischio la capacita? di riprodursi in futuro.

CHI SOFFRE DI PIU'
Se nei mari del Nord la situazione negli ultimi anni è migliorata, lo stesso non si può dire del Mediterraneo che, pur rappresentando solo lo 0,8 per cento della superficie globale marina, contiene dal 4 al 18 per cento delle specie. Non a caso per certi pesci che lo popolano - come il merluzzo, la triglia e la rana pescatrice - la mortalità per pesca ha raggiunto livelli sei volte superiori a quelli ritenuti adeguati.

In realtà, la situazione potrebbe essere persino peggiore. Un nuovo studio, pubblicato su Nature da Daniel Pauly e Dirk Zeller, ha ricostruito i livelli di pesca integrando numeri che sfuggono alle statistiche della Fao, come quelli della pesca artigianale e illegale. La ricerca ha rivelato che, tra il 1950 e il 2010, le catture nel Mediterraneo potrebbero essere state il 50 per cento più alte di quanto dichiarato. Per l’Italia le stime sono ancora più negative: «Le catture totali sono state 2,6 volte superiori rispetto a quanto dichiarato alla Fao», hanno scritto gli studiosi.

IL PIANO DI BRUXELLES
Di tutto questo si discuterà nei prossimi giorni a Catania. La riforma della Politica Comune della Pesca, adottata nel 2013, prevede infatti che gli stock ittici debbano essere riportati a livelli sostenibili entro il 2020. Ma la strada intrapresa non fa prospettare risultati soddisfacenti. Che fare? Ridurre la pesca nel Mediterraneo del 50-60 per cento, dicono a Bruxelles. Ma non solo.

Secondo MedReAct, l’organizzazione che promuove azioni di recupero della biodiversità marina del Mediterraneo, «bisogna anche intervenire subito per combattere incisivamente la pesca illegale, adottare piani di recupero per gli stock più a rischio e chiudere le aree di nursery lasciando così al mare il tempo di ripopolarsi», dice Domitilla Senni.

FEDERPESCA: EUROPA MIOPE
Inviti che i pescatori italiani vedono come fumo negli occhi. «Il problema dello sovrasfruttamento esiste davvero», ammette Luigi Giannini, vice presidente di Federpesca, «ma finora la politica dell'Ue è stata miope: ha costretto i Paesi membri a ridurre la capacità di pesca, facendo perdere solo all'Italia circa 10 mila lavoratori negli ultimi 15 anni, nel frattempo però Stati come la Croazia o la Tunisia hanno aumentato la loro flotta e il risultato è sotto gli occhi di tutti: il Mediterraneo è sempre più povero».

Gli ambientalisti ribattono ricordando i dati della Commissione europea, secondo cui gli stock europei sono più sfruttati rispetto a quelli condivisi con Paesi terzi, cioè nazioni che non fanno parte dell'Ue. Come la Tunisia, appunto, i cui pescherecci non s'inoltrano certo nel Golfo di Lione o in Liguria per catturare il nasello, una delle specie più a rischio. Insomma, la colpa non sarebbe solo dei Paesi che condividono con noi l'affaccio sul Mediterraneo senza dover rispettare le stesse regole.   

ITALIA-CROAZIA: 15-17
Qualche ragione, tuttavia, i pescatori nostrani sembrano averla. Prendiamo il caso delle sardine dell'Adriatico, pescate il doppio rispetto ai livelli considerati sostenibili. Colpa degli italiani? «No», secondo Giannini, che per argomentare la sua tesi cita un caso: «L'Italia 15 anni fa nell'Adriatico aveva circa 90 lampare, le imbarcazioni usate per pescare le acciughe. Oggi ne sono rimaste 15. La Croazia, che allora non aveva lampare, oggi ne ha circa 75. E sa qual è il miglior mercato delle acciughe per i croati? L'Italia».

D'altra parte la flotta tricolore resta una delle più imponenti. Nel confronto europeo – i dati sono quelli della Commissione europea e riguardano il 2013 - è seconda solo a quella greca per numero di imbarcazioni, ed è la prima se si considera il peso e la potenza dei motori. Tradotto, fanno oltre 19 mila lavoratori coinvolti nel settore, per un fatturato complessivo di 839 milioni di euro e profitti lordi per 195 milioni.

MISURE D'EMERGENZA
Numeri che potrebbero presto ridursi, visto quanto dichiarato di recente dal Commissario europeo alla pesca, il maltese Karmenu Vella. Il 17 dicembre scorso, rispondendo a un'interrogazione parlamentare, Vella ha detto: «Stiamo al momento valutando quali sono le potenziali misure d'emergenza più adatte per gli stock ittici del Mediterraneo».

Le annuncerà proprio a Catania? Di certo le misure d'emergenza possono riguardare lo stop totale della pesca di alcune specie, per periodi che possono arrivare fino a un anno. L'ultima in ordine di tempo riguarda la spigola dei mari del Nord Europa, la cui pesca a strascico è stata bandita fino alla fine di aprile. O quella delle acciughe nel Golfo di Biscaglia, tra la Francia e la Spagna, che a luglio è stata fermata per tre mesi. Capiterà presto anche nei mari italiani? «Sarebbero iniziative certamente dolorose per il settore ittico», ammette Senni di MedReAct, «ma consentirebbero nel giro di qualche anno di ricreare la risorsa e con essa delle prospettive anche per la pesca, sia quella italiana che quella europea più in generale».

Già, perché nel frattempo il vecchio Continente sta diventando sempre più dipendente dalle forniture straniere. Secondo i dati della New Economics Foundation, un think tank britannico, l'Unione europea continua a essere grande consumatrice di pesce, ma è costretta a importarne sempre di più per via del sovrasfruttamento dei suoi mari. Rispetto al 1995, la produzione europea – che comprende anche l'acquacoltura – l'anno scorso è calata di un terzo. Quella italiana si è quasi dimezzata. Proporzionalmente è aumentata la nostra dipendenza dall'estero. Come dire: una soluzione serve, sia per salvare il Mediterraneo che per ridare una prospettiva ai pescatori europei. 

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