Occupare il nostro Paese. Ma anche la Francia ?e la Scandinavia. Per imparare a vivere meglio. Il regista statunitense racconta il suo ultimo polemico film

Michael Moore
«Molte persone che hanno visto i miei film pensano che io sia cinico e pessimista. Al contrario, sono un ottimista, anzi credo che il cinismo sia una forma di narcisismo. Per questo dopo essermi concentrato per tante volte su cosa non funziona negli Stati Uniti mi sono detto: per una volta non voglio filmare neanche una scena nel mio Paese e andare altrove per mostrare agli americani come si possono cambiare le cose per il meglio».

Così Michael Moore parla del suo nuovo “Where to Invade Next”, in cui suggerisce ai capoccioni del Pentagono di invadere qualche Paese straniero non più per privarlo del petrolio, come avvenuto nel recente passato, ma per rubare qualche idea utile a far progredire la democrazia americana.
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Il film che ha debuttato nei cinema Usa lo scorso febbraio, per iniziativa di Good Films e Nexodigital arriva ora come evento speciale dal 9 all’11 maggio in una serie di sale in tutta Italia.

«Dopo l’uscita nel 2009 di “Capitalism: A Love Story” sulla crisi finanziaria mondiale, mi aspettavo che la gente reagisse perché ero stanco di essere preso di mira da Fox News e di sentirmi solo a protestare contro quello che non va nel mondo. So che non è così e infatti due anni dopo è esploso il movimento Occupy Wall Street, perciò mi sono sentito in pace con me stesso e per un po’ me ne sono stato tranquillo», spiega Moore, che ci ha messo ben sei anni per ritornare dietro la macchina da presa. «Poi però è mancato mio padre e questo evento ha sconvolto la mia vita, ma anziché deprimermi, mi ha dato nuova energia per tornare a lottare».

UN MIRACOLO CHIAMATO FERIE

Con la sua idea di invasione pacifica, Moore nel film se ne va in giro per l’Europa per mostrare diversi esempi di legislazioni o pratiche sociali ed economiche virtuosi: dalla Francia in cui scopre che i bambini delle elementari mangiano cous cous e costolette di agnello anziché junk food, alla Slovenia dove apprende che non si pagano gli studi universitari, all’Islanda in cui racconta che i banchieri corrotti finiscono veramente dietro le sbarre.

Tra i Paesi visitati ed eletti ad esempio da seguire figura anche l’Italia, dove il regista scopre fatti sconvolgenti per l’americano medio: una coppia di Firenze racconta che nel nostro Paese i dipendenti hanno 30 giorni di ferie, più 15 di congedo matrimoniale e 12 festività annuali, ma godono comunque della tredicesima. «Non ci posso credere», esclama Moore nel film, «vuol dire che un mese venite pagati il doppio?». E poi, scegliendo di eleggere ad esempio universale un caso che persino l’italiano medio considererebbe utopia, mostra gli operai di un’azienda che hanno una pausa pranzo di due ore, per poter tornare a casa a mangiare con i familiari.

«So cosa hanno detto i miei critici nei giornali», spiega Moore. «Come puoi dirci che l’Italia è meglio degli Stati Uniti se tutti sanno che è un totale casino? Certo, avrei potuto mostrarne i problemi come l’alto tasso di disoccupazione, ma la mia risposta è che ho voluto cogliere i fiori e non le erbacce. I media qui in America non fanno altro che raccontare ai cittadini come il resto del mondo sia un disastro, un posto orribile in cui si pagano un sacco di tasse, e io ho pensato che avrei voluto solo due ore del loro tempo per mostrare qual è la verità su cosa accade in quei Paesi così disprezzati. Non c’è più bisogno di dire agli americani quanto fa schifo il nostro Paese, perché sono abbastanza intelligenti per averlo capito, ma di ispirarli con idee su come potrebbe diventare».

UMORISMO TEDESCO

L’idea del film d’altra parte ronzava in testa a Moore da molto tempo: «Per diversi anni io e il mio amico e produttore esecutivo Rod Birleson abbiamo parlato di questo progetto: più viaggiavamo e più ci accorgevamo di quante cose sorprendenti si trovassero in altre nazioni. La prima volta che mi è capitato di rimanere a bocca aperta è stato a 19 anni, quando lasciata la scuola sono andato due mesi in Europa: ero in Svezia e mi sono rotto un dito del piede, sono andato in ospedale e dopo essere stato curato, ho chiesto dove si pagava. Non c’era nessun conto e allora ho detto: ma come è possibile?».

Perciò con il suo team si è messo a cercare le cose più incredibili, come il fatto che la riforma della scuola finlandese, considerata la migliore al mondo, prevede per i bambini meno ore di studio, niente compiti a casa e più ore di svago rispetto al passato, perché anche suonare la chitarra o andare in skateboard viene considerato importante.

O ancora esempi che scandalizzerebbero, oltre agli yankee, anche molti abitanti della vecchia Europa, come il fatto che in Portogallo il possesso di droga per uso personale è stato depenalizzato ormai da 15 anni o che in Norvegia persino i peggiori criminali vengono trattati con umanità e anziché la pena di morte hanno come massima pena 21 anni di carcere, fatto che ha sconvolto anche l’opinione pubblica italiana quando lo stesso metro di giudizio è stato applicato di recente allo stragista neonazista Anders Breivik.

Oppure che gli operai della Faber-Castell di Norimberga sono pagati per 40 ore la settimana ma ne lavorano 36, in modo da trovare il tempo di rilassarsi e magari, andare in sauna, in un sistema produttivo in cui il profitto del padrone non è in contrasto col benessere dei dipendenti.

«Certo, ai tedeschi manca comunque il dono dell’umorismo», scherza Moore, «ma se loro sono stati in grado di risollevarsi dalle ceneri del nazismo in 70 anni, allora chiunque può farcela, persino noi». La ricetta per cambiare le cose in America il regista sembra suggerirla nel film quando mostra il diritto all’aborto nel breve excursus in Tunisia e i risultati ottenuti con le loro battaglie dalle donne in Islanda, dove molte manager sono donne e dove nel 1980 Vigdís Finnbogadóttir è stata eletta la prima Presidente di una nazione democratica al mondo.

«Con questo non voglio dire che basta eleggere una donna o un afroamericano Presidente per risolvere tutti i problemi», dice Moore «ma mi sono reso conto che in molti Paesi c’è maggiore eguaglianza che da noi: abbiamo solo 20 senatori donne e i media lanciano grida di giubilo, ma è solo il 20 per cento del totale, e visto che le donne sono il 52 per cento della popolazione, io chiamo questo straordinario risultato apartheid. Per fortuna ogni tanto c’è qualcuno che compie un gesto e cambia la storia, come quel tizio che tirò la prima martellata sul Muro di Berlino e io spero che questo momento sia avvenuto quando Patricia Arquette, accettando l’Oscar un anno fa, ha detto a milioni di spettatori che bisogna far entrare nella Costituzione l’Equal Rights Amendment: è stato ratificato da 35 Stati e ne mancano solo tre per farlo approvare e cambiare il nostro Paese, perché è dimostrato che quando le donne possono prendere le decisioni che contano, il risultato è migliore per tutti. Le donne e i neri sono quelli che abbiamo trattato peggio in passato, sono il nostro peccato originale ed ora è arrivato il momento di riparare i torti».

Il lancio del nuovo film è un momento utile al regista per fare anche un piccolo bilancio e considerare a che punto è il documentario, che lui stesso ha contribuito a rilanciare negli ultimi anni col suo successo: «Ho da poco compiuto 60 anni e non so per quanto potrò andare avanti a dire ciò che è giusto fare con i miei film. Quando ho iniziato nel 1989 volevo innovare il genere, apparendo in scena e facendo ridere il pubblico, ma le mie idee non erano molto popolari. Molti pensavano che se usi l’umorismo svilisci il messaggio, mentre io penso che se fai ridere il pubblico, si rilassa ed è ben disposto ad ascoltare le informazioni che gli stai comunicando. Credo che da allora le cose siano cambiate molto e ci sia molta più libertà nel linguaggio e apertura mentale».

Che Moore abbia ragione lo dimostra ad esempio la fulminante ascesa in America del comico John Oliver che usa un inedito mix di notizie serie e battute fulminanti nel suo show tv “Last Week Tonight”. È stato proprio Oliver a raccontare all’America lo scandalo dell’acqua contaminata di piombo a Flint, città natale di Moore, che proprio lì ha mosso i primi passi con “Roger & Me”, in cui raccontava come la sua comunità era stata messa in ginocchio dalla crisi della General Motors.

È difficile immaginare se sarà questo nuovo scandalo il soggetto del suo prossimo lavoro, anche perché con “Where to Invade Next” Moore ha deciso di cambiare strategia comunicativa: «Preferisco la segretezza, perché trovo che dei film ormai si parli troppo prima che escano. La gente stenta a crederci, ma c’è stata un’era in cui chi andava ospite nei talk show, ad esempio da Johnny Carson, non aveva nulla da promuovere tranne le proprie idee. Ed era bellissimo».

In ogni caso, nell’attesa di trovare un nuovo spunto, Moore è soddisfatto dell’impatto che i suoi film hanno avuto su chi li ha visti: «Non dimenticherò mai la cena con Tarantino dopo che la sua giuria mi assegnò la Palma d’oro a Cannes nel 2004 per “Fahrenheit 9/11”. Mi svelò che non era mai andato a votare prima d’allora, ma che dopo avere visto il film lo avrebbe fatto. Avevo i brividi e gli ho risposto: se tu mi hai detto una cosa del genere, altri milioni di persone faranno come te. E questo è un premio molto più grande della Palma d’oro».

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