Alla fine ha stravinto Anora con la sua sex worker che crede di trovare l'amore tra le braccia del figlio di un miliardario russo e invece finisce, forse, fra quelle di un altro russo di origini assai più modeste ma anche di tutt'altra caratura morale: miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura originale per l'indipendente Sean Baker, perfino migliore attrice anche se la giovane Mikey Madison, bravina per carità, aveva concorrenti assai più meritevoli a partire dalla meravigliosa Fernanda Torres di Io sono ancora qui, il magnifico film brasiliano di Walter Salles, che torna comunque a casa con la statuetta di miglior film internazionale.
Alla fine insomma è andato tutto più o meno come si sapeva e forse si temeva. Il film più nuovo e dirompente dell'anno, Emilia Perez, tredici candidature quasi un record, linciato sui social per colpa di alcuni vecchi tweet della protagonista, l'attrice trans Karla Emilia Gascon, deve accontentarsi di poco, una statuetta per la migliore non protagonista all'inarrivabile Zoe Saldaña e una alla miglior canzone, che con grande aderenza allo spirito dei tempi si intitola "El mal".
Per il resto questa edizione degli Academy Awards conferma il clima di blanda normalizzazione dominante dentro un'industria cinematografica ringiovanita e ripulita dagli eccessi di "bianchezza" di una volta, ma sempre più divisa e forse attenta a non schierarsi troppo apertamente contro l'era Trump.
Lo dicono le 10 candidature e i soli due premi vinti da The Brutalist, uno assai meritato per Adrien Brody e un altro per la colonna sonora. Lo ribadisce la sconfitta annunciata di The Apprentice, film diretto addirittura da un regista iraniano e dedicato all'ascesa del giovane Trump, apertamente boicottato negli Usa e candidato solo per i due attori, protagonista e non protagonista, che naturalmente non hanno vinto. Ma la cautela generale del momento era ancora più chiara nelle esclusioni clamorose di alcuni grandi nomi assenti perfino dalle candidature, dai venerabili Clint Eastwood e Francis Ford Coppola (Giurato numero 2 e Megalopolis) a Pedro Almodovar (non pervenute anche le due protagoniste della Stanza accanto, Julianne Moore e Tilda Swinton) e a Luca Guadagnino (zero candidature per Challengers e per Queer). Senza dimenticare l'esclusione forse più clamorosa visti i tempi, cioè l'inquietante Civil War diretto dall'inglese Alex Garland, lucido, terribile e speriamo non profetico atto d'accusa contro l'America armata e feroce di Trump.
Da qui dobbiamo partire per tentare di capire dove sta andando il cinema americano, che negli ultimi anni sembrava sempre più attento a Idiomi e talenti venuti da lontano e da film non necessariamente allineati. La grande affermazione di Anora è una grande notizia per il cinema indipendente che fatica sempre più a sopravvivere nell'ecosistema hollywoodiano. Il trionfo di No Other Land, docu diretto da un collettivo israelo palestinese, ci ricorda quanto è alta l'attenzione sulla pulizia etnica in corso a Gaza. Mentre la vittoria del bellissimo Flow, il film d'animazione diretto da un ragazzo prodigio lettone testimonia la curiosità per chiunque si dimostri capace di superare le barriere linguistiche e culturali, ma il quadro generale disegnato da questa edizione degli Oscar resta complesso e contraddittorio. Speriamo che i grandi festival internazionali capiscano che ora più che mai possono tornare a svolgere un ruolo fondamentale.